“Straziami ma di baci saziami” di Dino Risi

(Italia/Francia, 1969)

Qui parliamo di uno dei venti film (dieci sono oggettivamente troppo pochi!) da portare sull’isola deserta.

Il magico duo Age-Scarpelli parte dall’idea di una parodia casareccia – in perfetto stile da fotoromanzo romantico che in quegli anni furoreggiava – del grande e melodrammatico “Il Dottor Zivago” di David Lean, il cui successo planetario ancora echeggiava nell’aria.

Ma da una semplice macchietta, grazie al genio artistico di Dino Risi, Nino Manfredi e, soprattutto, di uno strepitoso Ugo Tognazzi (nei panni del sarto sordomuto Umberto Ciceri), sboccia invece una delle commedie all’italiana più riuscite della storia.

Ci sono numerose scene indimenticabili, a partire da quella finale, ma io mi sbellico sia per quella del fatidico rincontro fra Balestrini Marino (Manfredi) e Di Giovanni Marisa (Pamela Tiffin): “…come il Conte di Montecristo!” e “Vojo ‘nfangà! …Vojo ‘nfangà!”; che per quella della festa in maschera con un Manfredi/Spagnola e Tognazzi/Indiano che ballano il tango.

E pensare che sono gli stessi due che interpreteranno solo qualche mese dopo una delle scene più belle e toccanti de “Nell’anno del Signore” di Luigi Magni, in cui Manfredi è Pasquino che si nasconde sotto le vesti dell’analfabeta e umile ciabattino Cornacchia, mentre Tognazzi in quelli del diabolico e spietato cardinale Agostino Rivarola, che lo ha scoperto.

Che grandi attori: ARIDATECELI!

“Blue Jasmine” di Woody Allen

(USA, 2013)

Non tutti i film di Woody Allen hanno la stessa potenza narrativa, anche se tutti, in maniera differente, toccano corde profonde della nostra anima.

Ma questo “Blue Jasmine” fa parte, a pieno titolo, dei capolavori creati dal genio newyorkese.

Con una stratosferica Cate Blanchett – che giustamente ha vinto uno degli Oscar più meritati nella storia del premio – “Blue Jasmine” ci racconta la caduta agli inferi di una donna emblema di quella parte della società egoista e superficiale, che pone sempre prima la forma alla sostanza.

E’ una figura, purtroppo, davvero rappresentativa dei nostri tempi di crisi. Tempi che sono comunque opulenti per un gruppo ogni giorno più ristretto di persone intorno alle quali ruotano individui disposti a tutto pur di entrare a farvi parte, e che considerano il mondo e gli altri solo in funzione di questo obiettivo e delle loro proprie esigenze.

Immagino vi sia venuta già in mente qualche persona che conoscete…

Se è sublime ascoltare in lingua originale la Blanchett, un plauso merita anche Emanuela Rossi che magistralmente le dona la voce nell’edizione italiana.

Da vedere e far vedere a scuola.

“Il Commissario Montalbano” di Alberto Sironi

(Italia, dal 1999 al 2021)

Ho avuto la fortuna di bazzicare, per un corso, la RAI proprio nelle settimane in cui vennero trasmesse, nel 1999, le puntate della prima serie ispirata al personaggio creato da Andrea Camilleri.

L’aria che si respirava intorno alla serie – già in post produzione considerata “troppo” innovativa per la nostra televisione – era quella di limitare i danni (in termini di ascolti) della fiction “L’ispettore Giusti” con Enrico Montesano, che il giovedì sera trasmetteva Mediaset in risposta al grande successo “Il maresciallo Rocca” delle stagioni precedenti.

La storia, e soprattutto lo share, ci hanno detto chi preferì il pubblico quei giovedì, e che a distanza di ormai 15 anni continua a preferire.

Il segreto del successo sta in numerosi elementi, il più evidente è Luca Zingaretti (che Camilleri ha sempre considerato lontano anni luce dal “suo” Montalbano), ma forse i più importanti sono le sceneggiature e la regia.

Per le prime il merito deve andare allo stesso Camilleri (che si è fatto le ossa, fra l’altro, partecipando all’indimenticabile produzione RAI “Le inchieste del Commissario Maigret” con Gino Cervi) e poi anche alla freschezza e alla bravura di Francesco Bruni.

Per la regia, invece, si deve riconoscere ad Alberto Sironi di aver portato in televisione un linguaggio visivo incalzante, innovativo e soprattutto efficace, sapendo scegliere anche le attrici e gli attori nei ruoli principali come in quelli marginali molto bravi e credibili.

Davvero una bellissima serie tutta italiana.

“Grease” di Randal Kleiser

(USA, 1978)

Qui parliamo di uno dei migliori musical di tutti i tempi, di una colonna sonora che continua a essere venduta – e quindi comprata – a distanza di quasi tre decenni.

Ma soprattutto di uno strepitoso spettacolo di 110 minuti che ogni volta che lo vedi – in qualsiasi punto del film tu ti inserisca – non puoi fare a meno di arrivare, con tristezza, ai titoli di coda.

Il grande successo della pellicola è certamente dovuto soprattutto alle musiche e al libretto originale del musical, che sbancò i teatri di tutta l’America e parte del globo (per capire la portata dell’evento basta dire che anche Richard Gere impersonò Danny Zucco in una versione teatrale americana, mentre Russell Crowe recitò in oltre 400 repliche in una australiana).

Su John Travolta e Olivia Newton-John è stato detto molto, ma pensando al cast c’è una cosa che mi inquieta: Travolta fu la seconda scelta. La produzione, infatti, aveva preso tutto il cast in relazione all’attore che avrebbe dovuto impersonare Zucco e trainare al successo il film.

Il prescelto, al quale il film quindi era stato ricamato addosso, era Henry Winkler, il Fonzie di “Happy Days”, che all’ultimo – per sua stessa ammissione – rifiutò per paura di rimanere legato al personaggio troppo simile a quello che già interpretava nella famosa serie tv.

Legato a Fonzie ci è rimasto lo stesso, ma senza tutte le milionarie royalties che invece si becca Travolta sulle vendite della colonna sonora.

Ma bando alle ciance: chi non avrebbe voluto avere a scuola un gruppo di compagne come le Pink Lady?

“Saperla lunga” di Woody Allen

(Bompiani, 1973)

A fare l’introduzione della prima edizione di questo libro è addirittura Umberto Eco che accenna una breve biografia di questo giovane (allora) regista e soprattutto autore di testi comici, famosissimo negli USA, ma da noi quasi sconosciuto fino all’uscita, recentissima (sempre allora) del suo “Prendi i soldi e scappa”.

In quest’opera del genio newyorkese ci sono gag e battute famosissime, e brani che nei decenni successivi ispireranno l’autore per i suoi film, come “Memorie degli anni Venti” che anticipa “Midnight in Paris”.

Insomma, per gli amanti di Woody Allen – soprattutto della prima parte della sua carriera cinematografica – e per chi ama ridere in generale.

“Harry e Tonto” di Paul Mazursky

(USA, 1974)

Non è stato certo il cinema indipendente americano a fotografare per primo il dramma della terza età (l’immortale “Umberto D.” del maestro Vittorio De Sica insegna) ma questo piccolo e indipendente gioiellino firmato da Paul Mazursky merita di essere ricordato.

Grazie anche al suo protagonista Art Carney – che vince l’Oscar come miglior attore protagonista – e soprattutto al grande gatto Tonto che interpreta se stesso, questa pellicola ci regala un acquarello lucente, ma triste e malinconico, di un anziano alle prese con la solitudine.

Recita un vecchio detto nel mondo dello spettacolo che vuole che chi sappia far ridere sia indiscutibilmente anche capace di far piangere. Ad incarnarlo è senza dubbio Carney che per questa pellicola guadagna l’Oscar anche se nella sua carriera diventa famoso soprattutto per ruoli comici. Fu lui ad impersonare, infatti, Felix Ungar nella prima messa in scena teatrale de “La strana coppia” di Neil Simon avvenuta a Broadway il 3 ottobre del 1965 accanto a Walter Matthau nei panni di Oscar.

Tornando a “Harry e Tonto” è davvero un bel film ma molto malinconico, poi magari per tirarsi su ci si rivede qualche bel cartone animato…