“In A World – Ascolta la mia voce” di Lake Bell

(USA, 2013)

Negli Stati Uniti la figura dello speaker cinematografico è giustamente riconosciuta e pubblicamente apprezzata, al contrario che da noi dove dei doppiatori, molto spesso e salvo alcune rare eccezioni, si ignora il nome oltre che il volto.

Ho usato il termine speaker e non doppiatore perché in USA i film stranieri non sono quasi mai doppiati, ma le “voci” al cinema ci sono lo stesso, come ad esempio nei trailer e negli spot.

Ed è proprio in questo singolare quanto poco conosciuto mondo che Lake Bell ambienta questa divertente e insolita commedia.

In un mondo (e qui mi rifaccio pari pari al titolo originale) in cui le donne hanno poco spazio, una giovane figlia d’arte prova a sfidare i suoi colleghi maschi…

D’altronde, pensandoci bene anche da noi è così: quanti trailer cinematografici narrati da una voce femminile vi vengono in mente?

E infine, per la fredda cronaca, la regista nonché protagonista del film Lake Bell è stata premiata al Sundance Film Festival.

“La follia di Henry” di Hal Hartley

(USA, 1997)

Simon Grim è un introverso e patologicamente timido netturbino che vive con la madre e la sorella. La sua vita cambierà per sempre quando uno sconosciuto prenderà in affitto il sottoscala della casa in cui vive.

Henry, il nuovo inquilino, è un sedicente scrittore che convince Simon a liberare la parte creativa repressa nel suo profondo, donandogli un blocco e una matita per scrivere poesie. Cosa che avrà conseguenze inimmaginabili…

Hal Hartely, considerato fra i maggiori esponenti del cinema indipendente americano, firma una black-commedy d’avanguardia, premiata al Festival di Cannes come migliore sceneggiatura.

Talmente d’avanguardia che, fra le altre cose, anticipa la Primavera Digitale: quello che diventerà poi l’editore del protagonista viene presentato nel suo ufficio mentre si confronta con alcuni suoi collaboratori per capire e affrontare l’enorme cambiamento che a breve arriverà nell’editoria mondiale grazie all’avvento della lettura attraverso i computer e i portatili: siamo nel 1997!!!

“I segreti di Osage County” di John Wells

(USA, 2013)

Qui parliamo di uno stratosferico cast artistico con i due premi Oscar Meryl Streep e Julia Roberts affiancate da Sam Shepard, Ewan McGregor, Juliette Lewis, Benedict Cumberbach oltre ad altri grandi attori – soprattutto di teatro – meno noti in Italia come Margo Martindale e Chris Cooper.

Il tutto diretto da John Wells, creatore e regista della serie “E.R. – Medici in prima linea” ispirata ai racconti di Michael Crichton.

Ma non basta! La sceneggiatura è tratta dall’opera teatrale vincitrice del premio Pulitzer nel 2008 “Agosto: foto di famiglia” scritta da Tracy Letts.

Sulla deflagrazione di una famiglia dopo “Natale in casa Cupiello” del grande Eduardo De Filippo era davvero difficile aggiungere qualcosa di nuovo, ma Letts – autore anche della sceneggiatura cinematografica – ci riesce, e pure bene.

Mettiamoci poi la bravura stellare della Streep che riesce anche ad essere affascinante nei panni di una malata di cancro con parruccone e occhiali neri, e quella della Roberts che – da grande attrice – invecchia appositamente arrotondandosi le curve e mostrando un’insopportabile ricrescita.

Insomma, un grande film da vedere e godere fotogramma per fotogramma.

“Oltre il giardino” di Hal Ashby

(USA, 1979)

La biografia di Peter Sellers racconta di come l’attore abbia dovuto penare per molti anni prima di poter portare sullo schermo il romanzo “Oltre il giardino” scritto nel 1970 da Jerzy Kosinski, visto che si sentiva nel profondo portato a dare vita al suo protagonista Chance, ma nessun produttore era disposto a realizzare un film così tagliente con lui, icona della commedia leggera e per famiglie.

Ma se abbiamo dovuto aspettare tanto, comunque ne è valsa la pena! Hal Ashby, uno dei migliori registi “off Hollywood” di quegli anni, oltre a Sellers, dirige un cast strepitoso fra cui spiccano la bellissima e bravissima Shirley MacLaine e il grande “vecchio” Melvyn Douglas, che vince l’Oscar come miglior attore non protagonista.

Con tutto il rispetto per Douglas, grida ancora vendetta la mancata statuetta a Sellers – che era candidato come miglior attore protagonista – che in questo film sfodera la sua più grande interpretazione regalandoci un personaggio indimenticabile e simbolo dei suoi tempi più di tanti saggi o articoli.

L’attore inglese pagò l’essere sempre visto come un semplice comico/clown (nel pieno rispetto delle due arti) e per questo molti considerarono la sua strepitosa interpretazione come qualcosa di casuale.

Ovviamente non era così: Sellers era un animale da palcoscenico e da macchina da presa come ce ne sono stati pochi altri.

Per comprenderlo meglio consiglio di vedere il film biografico “Tu chiamami Peter” di Stephen Hopkins con un grande Geoffrey Rush nei panni di Perter Sellers.

Tornando al film, ci sarebbe da commentare le mille battute e situazioni irresistibili che formano un fantastico crescendo, ma io rimango ogni volta estasiato anche dai ciak scartati e senza sonoro che Ashby usa come sfondo ai titoli di coda: memorabili.

Alcuni trovarono, all’uscita del film, la scena finale troppo surreale, ma quando un paio d’anni dopo salì alla Casa Bianca Ronald Reagan in molti – dicono le malelingue – …furono costretti a ricredersi.

“Nightmare Before Christmas” di Tim Burton e Henry Selick

(USA, 1993)

Questo capolavoro nato dal genio di Tim Burton è uno dei venticinque (venti sono troppo pochi, figuratevi dieci!) film da portare sull’isola deserta.

Diretto da un esperto del genere come Henry Selick (che qualche anno dopo firmerà un altro bel film come “Coraline e la porta magica”) “Nightmare Before Christmas” ci porta nelle inquietanti e allo stesso tempo tenere atmosfere gotiche burtaniane tipiche della notte di Ognissanti; condite con le musiche scritte e interpretate – nella versione inglese – da un altro genio quale Danny Elfman (leader degli Oingo Boingo prima di diventare autore di colonne sonore spesso candidate all’Oscar come quelle di “Will Hunting”, “Men in Black”, “Big Fish” e “Milk”).

Ma noi italiani abbiamo avuto una fortuna in più: il grande artista geniale Renato Zero (e guai a chi me lo tocca!) ha tradotto e interpretato le canzoni del film nella versione italiana.

Nel vedere le due versioni non esistono dubbi: Renato Zero tutta la vita! D’altronde il cane di Jack Skeletron si chiama proprio Zero…

Da vedere anche se non è Natale!

“Obsession – Complesso di colpa” di Brian De Palma

(USA, 1975)

Da molti Brian De Palma è considerato – a ragione – il vero erede cinematografico del maestro del brivido Alfred Hitchcock.

E guardando questa affascinante quanto angosciante pellicola non si può che condividere tale tesi, magari in silenzio e semplicemente annuendo, mentre si osserva sublimati l’ultima indimenticabile scena (che poi è un classico di De Palma – vedi pure Hitchcock – la sorpresa all’ultima scena).

Scritto dallo stesso regista insieme a Paul Schrader – uno dei migliori sceneggiatori americani di tutti i tempi (ha firmato, tanto per la fredda cronaca, script tipo “Taxi Driver”, “Toro scatenato” e “American gigolò”) – questo film sembra essere girato per ricordare a tutti che grande innovatore e che immortale regista era Hitchcock.

In più, come in ogni pellicola di De Palma, c’è sempre un po’ di Italia: qui il regista ci mette Firenze, ma soprattutto la bellissima e incantevole facciata di San Miniato al Monte.

Merita un plauso anche il cast con il bello hollywoodiano – in un più che dignitoso declino – Cliff Robertson, la giovane e davvero brava Geneviève Bujold, e il cattivo “infame” preferito da De Palma: John Lithgow, che poi ha mostrato le sue grandi doti comiche nella travolgente sit-com “Una famiglia del terzo tipo”, nonché donando la voce originale al perfido Lord Farquaad nel primo “Sherk”. Deve essere ricordata anche l’ottima fotografia curata da Vilmos Zsigmond.

Insomma, da rivedere anche se – e forse diventa anche meglio… – si conosce l’esito della scena finale.

“Manhattan” di Woody Allen

(USA, 1979)

Sarà il connubio fra la musica immortale di George Gershwin e la sublime fotografia in bianco e nero firmata da Gordon Willis, oltre che ovviamente i dialoghi irresistibili e all’ultimo colpo ma, tanto per tornare a parlare di Woody Allen, questo suo “Mahattan” – scritto insieme a Marshall Brickman – rimane memorabile.

Fra i primi sentimenti che si provano c’è quello di scappare immediatamente a New York per guardarla dal vero, magari usando occhiali speciali che te la fanno vedere in b/n, perché come dice Wim Wenders: “La vita è a colori, ma in bianco e nero è più realistica”.

Adoro questo film anche per una scena ben precisa, che mi fa sbellicare e riflettere ogni volta che la rivedo e che – per questo non sarò mai abbastanza grato al grande Woody! – ha salvato la mia autostima in fatto di vita amorosa.

E’ la scena in cui Mary (Diane Keaton) incontra casualmente il suo ex marito Jeremiah. Per tutta la sua relazione con Isaac (Woody Allen), Mary non ha fatto altro che parlare di lui come di un animale virile che l’ha liberata da ogni inibizione, aprendola al mondo dei sensi; una sorta di divoratore di corpi femminili, “sotto” al quale alcune donne – compresa lei – sono svenute per la troppa intensità dell’orgasmo.

Le facce di Isaac durante questi racconti sono silenziose ma alquanto eloquenti. Ma nulla a che vedere con l’espressione che assume quando finalmente vede dal vivo Jeremiah, interpretato da Wallace Shawn, che è un noto attore di Broadway, molto famoso per la sua bravura ma non certo per il suo aspetto fisico.

Shawn/Jeremiah, oltre che parlare in modo fastidiosamente nasale, è un suo coetaneo, più basso di Allen e molto più stempiato di lui. Ad Isaac non rimanere altro che riflettere sulla soggettività e sulla concretezza dei mostri e dei fantasmi che ci creiamo nella nostra testa.

Memorabile.

Lauren Bacall

A distanza di poche ore il cinema ha subito un altro triste lutto.

Dopo la scomparsa – davvero dolorosa – di Robin Williams, se ne è andata ieri anche Lauren Bacall, grande icona del cinema in bianco e nero hollywoodiano, e non solo.

Se è diventata famosa per il suo sguardo (il suo soprannome in America era appunto “The Eye”) e per essere stata l’ultima moglie di Humprey Bogart, Lauren Bacall ha saputo “invecchiare” con grande stile e soprattutto bellezza.

La sua carriere cinematografica, infatti, è stata interrotta ieri solo dalla morte. Dal 1944, anno in cui apparve sul grande schermo in “Acque del Sud” accanto a Bogart, non ha mai smesso di scegliere oculatamente produzioni di successo e di qualità.

Sempre accanto a suo marito gira il noir per eccellenza “Il grande sonno” diretto da Howard Hawks nel 1946. Nel 1953 arriva il successo planetario – per la prima volta lontano dal suo Bogart – con “Come sposare un milionario” di Jean Negulesco, che la consacra dea della bellezza assieme a Marilyn Monroe e Betty Grable.

Ma gli anni passano e il cinema – soprattutto quello di qualità – cambia. E così la Bacall sceglie ruoli sempre più affini a se stessa e al proprio stile come in “Detective’s Story” diretto da Jack Smight nel 1966, un altro dei grandi noir hollywoodiani, in cui recita accanto a Paul Newman.

Nel 1974 fa parte del cast stellare di “Assassinio sull’Orient Express” diretto da Sidney Lumet; mentre nel 1990 è l’agente letterario di Paul Sheldon (James Caan) nel terrificante “Misery non deve morire” di Rob Reiner, tratto dall’opera del Re Stephen King.

Il 1994 è l’anno in cui viene diretta da Robert Altman in “Prêt-à-porter” e dieci anni dopo, nella versione inglese, dona la sua voce alla Strega delle Terre Desolate ne “Il castello errante di Howl” del maestro Hayao Miyazaki .

Nel 2003 è nel cupo “Dogville” di Lars von Trier, accanto a Nicole Kidman e Paul Bettany; e pochi mesi fa è andata in onda una puntata de “I Griffin” in cui presta la voce alla mamma di un vecchio amico di Peter Griffin, che lo stesso seduce.

Insomma, Lauren Bacall è stata una delle rare icone cinematografiche che è passata con eleganza e bravura attraverso numerosi decenni rimanendo fedele alla propria professionalità e, soprattutto, alla propria bellezza.

Di fatto una gran donna e una grande artista di sconfinata classe che ci mancherà molto.

Robin Williams

Sulle drammatiche circostanze della morte di Robin Williams è inopportuno e futile soffermarsi, vale la pena solo riflettere su una grande e apparente contraddizione dell’essere umano: le vite reali di molti straordinari comici sono state spesso difficili e drammatiche.

Oggi è giusto semplicemente ricordare quello che ci ha lasciato in termini di divertimento e sane risate.

Tutti, o quasi, considerano i suoi più grandi successi la serie “Mork & Mindy” (1978-1982) e il film “L’attimo fuggente” (1989).

La prima, di cui ero patito da pischello, a riguardarla oggi rasenta la noia più banale – salvo alcune grandi gag, soprattutto fisiche, di Williams – esattamente come la serie di cui fu uno spin-off “Happy Days”.

Per il film di Peter Wier, invece, ancora mi esalta la scena finale con tutti in piedi sui banchi, e quel mite e travolgente professor Keating per il quale Williams fu candidato all’Oscar, che vinse solo una volta e per il film ”Will Hunting” (1997).

Se vanno ricordate le sue interpretazione in grandi pellicole come “Good Morning, Vietnam” (1987), “La leggenda del re pescatore” (1991), “L’uomo dell’anno” (2006) e soprattutto “Jack” di Francis Ford Coppola (1996) – bel film con uno straordinario Williams che però non ha avuto il successo che meritava forse perché racconta una storia davvero troppo triste e dolorosa – io l’ho sempre amato nel piccolo lungometraggio indipendente “Mosca a New York” diretto da Paul Mazursky nel 1984.

Wladimir Ivanoff – un barbuto quanto bravo Robin Williams – è un musicista russo che decide di scappare dall’austera e rigida Unione Sovietica affascinato dall’Occidente. Ma la sua integrazione con la luccicante way of life americana sarà più dura e difficile del previsto.

Deliziosa e graffiante satira del rampantismo reaganiano, “Mosca a New York” è un film che se in programmazione deve essere rivisto, e costò al suo protagonista l’accusa – già allora anacronistica e capziosa – di “comunista”.

Ma che tristezza adesso! Con quel suo faccione simpatico che dispensava sorrisi a tutti…

Che almeno il viaggio che ha appena iniziato sia più sereno della vita che si è appena conclusa.

“Terminator” di James Cameron

(USA, 1984)

Nel 1984 la paura dell’olocausto atomico era ancora forte e concreta – come purtroppo è tornata a esserlo in questi ultimissimi giorni – e un film di fantascienza centrato sul tema non sembrava una grande novità.

Ma quello che realizzò il giovane e semi sconosciuto James Cameron (con all’attivo solo il sequel di un b-movie horror) divenne immediatamente un cult, segnando una netta linea di demarcazione nel cinema di genere, e non solo.

Merito soprattutto di una bella e incalzante sceneggiatura – firmata dallo stesso Cameron insieme a Gale Anne Hurd (proveniente dalla scuola di Roger Corman e che sposerà lo stesso Cameron nell’85 per poi separarsi e convolare a nozze con Brian De Palma nel 1991) e William Wisher.

Il merito va anche ai muscoli e alla faccia “da schiaffi” di Arnold Schwazenegger, alla soggettiva del cyborg e agli effetti speciali che faranno scuola, come poi spesso capiterà per gli altri film di Cameron.

E ci aggiungo anche la bravura di Linda Hamilton che interpreta la volitiva Sarah Connor – madre del futuro leader della resistenza John Connor – attrice che lo stesso Cameron ha poi sposato nel 1997.

E comunque, per la fredda cronaca, Cameron – forse perché è laureato in fisica, e i fisici si sa sono tutti un po’ eccentrici (vedi “The Big Bang Theory”) – non l’ha piantata di sposare colleghe: dal 1989 al 1991 è stato il marito di Kathryn Bigelow, la prima donna nella storia a vincere l’Oscar come miglior regista (nel 2008 con “The Hurt Locker”).

Ma tornando al film, la mia battuta preferita, oltre alla diabolica domanda del Terminator: “Sarah Connor?” è quella del passante che, mentre sta palrando ad un telefono pubblico, viene letteralmente sradicato dal cyborg che cerca l’elenco telefonico per sapere l’indirizzo della sua preda, e che dice rialzandosi, pacato, all’orco meccanico: “…Ehi amico: hai dei seri problemi comportamentali…”.