“La famiglia Addams” di David Levy

(USA, 1964-1966)

Dalle famosissime strisce del disegnatore Charles Addams (1912-1988, il cui vero nome era Charles “Chas” Samuel Addams) dedicate alla famiglia mostruosa che portava il suo cognome e che a partire dal 1938 apparvero sul “The New Yorker”, sono state tratte numerose opere televisive e cinematografiche, ma quella che preferisco in assoluto è la serie degli anni Sessanta, che è entrata di diritto nell’immaginario di più generazioni.

Con un cast di esperti attori televisivi, che nel corso dei decenni hanno fatto apparizioni in numerosissime altre serialità di successo, la “Famiglia Addams” derideva in maniera gentile ma sagace la grande way of life americana di quegli anni che spesso era arrogante e oppressivamente perbenista.

Rispetto a tutte le successive rivisitazioni in film e cartoni animati che hanno accentuato troppo spesso soprattutto l’aspetto macchiettistico della famiglia di mostri, questa prima serie conserva molto bene lo spirito caustico delle strisce di Addams, soprattutto nella prima stagione.

Per la chicca, e per chi ancora non lo sapesse, l’incorreggibile zio Fester di questa serie è interpretato da un compassato e calvo Jackie Coogan, piccolo protagonista quarant’anni prima de “Il Monello” del maestro Charlie Chaplin. Nei panni di Gomez, invece, c’è il grande caratterista John Astin, che lega per sempre il suo volto, i suoi baffi e il suo sorriso al capofamiglia Addams.

“Brothers” di Jim Sheridan

(USA, 2009)

Bisogna ammetterlo, Tobey Maguire non ha una faccia tanto simpatica, ha l’espressione del classico secchione che guarda i prepotenti che a scuola lo mobbizzano pensando: ”Sfigati, ve la farò pagare fra qualche anno quando lavorerete tutti per me”.

Ma anche dopo il successo dei suoi Spider Man, da grande attore, bisogna riconoscergli che sceglie sempre film di alta qualità.

E questo “Brothers” diretto da Jim Sheridan (autore fra gli altri di “Nel nome del padre”, “Il mio piede sinistro” e “The Boxer”) è fra i migliori.

Con un cast davvero di prim’ordine, fra cui brillano Jake Gyllenhaal, Natalie Portman e Sam Shepard, questo film descrive in maniera sottile ma implacabile il ritorno a casa di un marines dalla guerra in Afghanistan, quello che ha subito e quello che deve subire anche e purtroppo tutta la sua famiglia.

Guardandolo non si può fare a meno di pensare a quanto abbia ispirato gli autori della serie “Homeland” (già remake di una serie israeliana).

Comunque sia “Brothers”, che è scritto da David Benioff (fra gli autori de “Il Trono di Spade”) e tratto dall’opera dei danesi Susanne Bier e Anders Thomas Jensen, è davvero uno dei migliori film sul dramma interno agli USA frutto del conflitto in Medio Oriente.

“Venere privata” di Giorgio Scerbanenco

(Garzanti, 1966)

Amo Giorgio Scerbanenco e tutto quello che ha scritto nonostante sia finito nel dimenticatoio, almeno per i “grandi salotti letterari” della nostra “opaca” splendente editoria.

Il primo approccio alla scrittura del giovane Scerbanenco (nato a Kiev e il cui cognome viene italianizzato dalla madre vedova quando, con lui sedicenne, si stabilì a Milano) passa per il genere rosa, cosa che nei decenni successivi influirà – agli occhi ipocriti e radical chic di dotti critici e “salottieri” professionisti – negativamente sulla sua fama.

Anche per questo, forse, quello che scriverà nella seconda parte della sua carriera sarà spesso duro e crudo, come questo splendido “Venere privata” in cui compare l’ex medico e investigatore Duca Lamberti.

Un giallo tosto, nella migliore tradizione del noir anni Cinquanta, che ha fatto – e continua a fare – scuola per generazioni di scrittori.

Sono sicuro che se il Stephen King potesse leggerselo in una traduzione decente se ne innamorerebbe all’istante.

Nel 1970 Yves Boisset realizza “Il caso Venere privata“, fra i peggiori adattamenti cinematografici del decennio, vero trash e con una Raffaella Carrà in déshabillé.

“La grande illusione” di Jean Renoir

(Francia, 1937)

Il 28 luglio del 1914 è considerata la data ufficiale dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, data da cui prende spunto il maestro Jean Renoir per realizzare il suo capolavoro, interpretato da un bravissimo Jean Gabin e da un raffinato e decadente prussiano Erich von Stroheim.

Nonostante abbia superato abbondantemente gli 80 anni, questa pellicola ancora ci commuove raccontandoci cosa fu quel conflitto – che allora ancora si chiamava la Grande Guerra – e come cambiò nel profondo la società militare e soprattutto quella civile.

Ma ci ricorda, purtroppo, anche l’animo gretto e stupido dell’essere umano che non sembra poter vivere senza combattere, e la pace quindi rimane solo …una grande illusione.

La portata di questo capolavoro, fra le innumerevoli citazioni e i mille riferimenti che la cultura planetaria continua ancora oggi a fare, ce la ricorda anche la critica esaltante che ne fece “Libro e Moschetto”, il giornale ufficiale del GUF (Gruppo Ufficiale Fascista) alla sua presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia del 1937, anche se il nostro Paese tragicamente guardava superbo le nubi dell’imminente nuovo conflitto, e nonostante il suo regista fosse uno dei simboli del cinema del Fronte Popolare francese legato dichiaratamente al Partito Comunista.

“Harvey” di Henry Koster

(USA, 1950)

Questo è uno fra i gioielli cinematografici più luminosi di tutti i tempi.

Forse l’inno più bello alla diversità che la Hollywood del New Deal roosveltiano produsse.

E il protagonista non poteva essere altro che James Stewart, attore simbolo di quell’indimenticabile periodo e che con il passare degli anni io, personalmente, non faccio altro che apprezzare.

Se Stewart fu “solo” candidato all’Oscar per questo film, a vincere la statuetta fu la bravissima Josephine Hull come migliore attrice non protagonista, lei che sei anni prima aveva interpretato un altro grande film “Arsenico e vecchi merletti”, nel ruolo di una delle due diaboliche sorelle.

Tratto dall’opera teatrale di Mary Chase, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1945, “Harvey” ci pone due emblematiche domande: chi di noi non ha mai avuto un amico immaginario? E soprattutto: chi ha avuto il coraggio di raccontarlo agli altri?

Da rivedere a cadenza regolare e inserire nel programma scolastico statale…

Nella nostra versione possiamo ancora oggi apprezzare la grandissima bravura dell’indimenticabile Gino Cervi che dona in maniera vellutata e sublime la voce a James Stewart.

“Amore a prima svista” di Bobby e Peter Farrelly

(USA, 2001)

Molto spesso i Farrelly sono accusati di essere troppo rozzi e volgari nelle loro commedie, e se questo in parte è vero, è vero anche però che i due scelgono per le loro opere sempre temi importanti e spinosi, che appaiono raramente in film di genere.

Come nel caso di questo divertente “Amore a prima svista” che, nella forma classica e un po’ cafona della teen comedy, parla senza false ipocrisie della reale importanza che ha nella nostra società l’aspetto esteriore a discapito di quello interiore.

Con gag esilaranti e spietate, un Jack Black in grande forma e una bellissima Gwyneth Paltrow, questa commedia mi diverte ogni volta che la rivedo.

Nel cast deve essere ricordato anche Jason Alexander – già protagonista della grande sit-com “Seinfeld” – nel ruolo del superficiale e gretto Mauricio.

Molti dei nostri critici hanno storto il naso davanti a questo film, probabilmente perché abituati ai simpatici cinepanettoni italici – anche se “purtroppo” ormai declino… – costruiti e sviluppati esclusivamente sulla rozzezza e la volgarità, e che si guardano bene dal possedere qualsiasi altro minimo concetto o spunto.

Strani ‘sti americani…

“Mr Hublot” di Laurent Witz e Alexandre Espigares

(Lussemburgo/Francia, 2013)

Il 2014 è stato l’anno in cui la Pixar, dopo tanti anni, non aveva nessuna delle sue opere candidate all’Oscar come miglior film d’animazione, ma la categoria è stata ugualmente illuminata da un piccolo – in senso solo di durata – capolavoro francese, che ha giustamente vinto la statuetta.

Scritto da Laurent Witz, “Mr Hublot” ci porta per poco più di dieci minuti in un mondo fantastico, fatto di macchine ma soprattutto di tenerezza e amore.

Non è un caso quindi che la Francia sia il terzo paese al mondo produttore di film d’animazione, dopo Stati Uniti e Giappone.

E non è un caso pure che anche questo gioiello citi, come le opere di Sylvain Chomet (“Appuntamento a Belleville” e “L’illusionista” su tutte) l’arte del grande Jacques Tati, che acquistò notorietà internazionale con il suo delizioso “Le vacanze di Monsieur Hulot” del 1953, il cui personaggio principale condivide – certamente non in maniera casuale – un cognome molto simile a quello dello stesso protagonista di questo corto.

“Ready Player One” di Ernest Cline

(ISBN Edizioni, 2011)

Su suggerimento social di un amico ho letto questo romanzo di fantascienza la cui prima edizione risale al 2010.

Nel 2045 le risorse della Terra sono sull’orlo dell’esaurimento e l’esistenza per la grande maggior parte degli esseri umani è davvero dura e alienante.

L’unico modo per vivere in maniera appagante, e spesso dignitosa, è OASIS, il mondo virtuale creato dal genio dell’informatica James Halliday, a cui tutti posso collegarsi con una semplice console.

Alla morte dello stesso Halliday, unico proprietario di OASIS, parte un’incredibile caccia al tesoro vincendo la quale si erediteranno tutti i beni miliardari di Halliday (fanatico degli anni Ottanta) e soprattutto i diritti totali sul mondo virtuale.

Dopo cinque anni però nessuno è riuscito a fare un passo avanti nella caccia, che ormai molti cominciano a considerare solo una falsa provocazione di Halliday.

Ma il giovane Wade Owen Watts supera il primo passo…

Per i patiti del genere – e non solo – ma soprattutto per gli “smanettoni” e i fanatici degli anni Ottanta che nel romanzo (sfizioso, godibile, anche se a volte un po’ troppo furbetto) troveranno pane per i loro denti.

La Warner Bros. ha comprato i diritti e la produzione del film tratto dal libro è ufficialmente in fase d’avvio (nel 2018 Steve Spielberg realizza la pellicola omonima “Ready Player One“). Gli anni Ottanta non sono ancora morti …o no?

Basta provare a guardarsi intorno e a contare quante persone vicino a noi portano le scarpe dette ballerine… sob!

“Un pesce di nome Wanda” di Charles Crichton

(UK/USA 1988)

Scritta da John Cleese, con la collaborazione di Charles Crichton, questa irresistibile commedia conserva ancora oggi tutta la sua carica ironica e satirica.

Sotto il segno dei Monty Python, di cui oltre a Cleese anche Michael Palin era – ed è nuovamente da pochi mesi – componente, brilla lo scontro deflagrante fa la società e la cultura britannica imbalsamata e quella arrogante e “cafona” americana impersonata da una prorompente Jamie Lee Curtis e un grandioso Kevin Kline, che per questa interpretazione vince l’Oscar.

Raccontare la storia o le innumerevoli gag e battute non ha senso, bisogna rivederlo.

Ed infine, ecco la chicca: in originale la lingua che parla Kline per eccitare la Curtis non è lo spagnolo – come nella nostra versione – ma l’italiano …eddaje!