“Kinky Boots – Decisamente diversi” di Julian Jarrod

(USA/UK, 2005)

E’ vero che ormai sono stati girati numerosi film sul mondo delle Drag Queen e dopo il grande “Priscilla – La regina del  deserto” sembra esserci poco da aggiungere, ma questa commedia ambientata nel mondo delle scarpe ne parla in maniera divertente e affatto banale.

Charlie Price (Joel Edgerton) è l’unico erede dell’antica fabbrica di austere scarpe Price di Northampton, per decenni guidata dal padre Harold. Quando questo muore Charlie, suo malgrado, se ne deve occupare.

I problemi arrivano quando scopre che il padre aveva nascosto a tutti l’annullamento dell’ordine del loro più grande cliente, ordine annuale che rappresentava gran parte del fatturato.

La Price è costretta quindi a licenziare 15 dipendenti e Charlie va a Londra cercando di piazzare le rimanenze. Lì si “scontra” con Lola (Chiwetel Ejiofor che a breve vedremo sul grande schermo come protagonista di “12 anni schiavo” di Steve McQueen) una Drag Queen che tiene regolari spettacoli musicali in un piccolo locale di Soho.

Anche se l’incontro imbarazza Charlie e la sua piccola e borghese educazione di provincia, il giovane torna a casa con un’idea per salvare la fabbrica.

Nel trovare i costumi di scena Lola ha un solo grande problema: le scarpe, o meglio gli stivali, perché tutti quelli che ha durano poco, essendo creati per il peso di una donna e non di un uomo. Ricalibrare il prodotto della Price e dedicarsi alle calzatura per Drag Queen potrebbe salvarla, ma…

In questo periodo a Broadway spopola il musical tratto proprio da questa deliziosa pellicola, ispirata a una storia vera.

“Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway

(Mondadori, 1952/2000)

Per parlare di questo romanzo breve (uno dei più famosi del Novecento) mi tocca prima parlare di Francesco Guccini e della sua “Incontro”, che ascoltavo spesso durante la mia adolescenza fricchettona, arrogante e molto spesso solitaria (con tutte le situazioni che il fatto lo stare soli comporta…) e mi fermavo spesso a riflettere sui versi, immaginandomi giù adulto e maturo, e mi chiedevo: ma quando avrei scoperto pure io Hemingway?

Mi avvicinai così al grande scrittore americano, ma la scintilla non brillò (evidentemente ero ancora troppo immaturamente maturo…).

Poi un’estate di qualche anno dopo, come accadeva spesso, andai a casa dei miei zii al mare.

Mio zio Adulio nella vita aveva fatto il fotografo ma, come quasi tutti gli uomini nati in riva al mare, era un appassionato pescatore. Quell’estate, fra un’uscita in barca e l’altra, stava realizzando una personale traduzione dall’inglese de “Il vecchio e il mare”.

La curiosità ebbe il sopravvento, soprattutto per la stima che avevo – e che ho per lui anche se ora governa la sua barca in lidi molto più belli e splendidi di quelli che possiamo vedere noi sulla Terra – e appena tornato a casa, senza dire niente a nessuno, comincia di soppiatto il romanzo.

Lo divorai in poche ore, e anche oggi, ogni volta che lo rileggo – oltre a ripensare piacevolmente a mio zio Adulio e alla sua barca – è sempre una grande emozione.

“Lost in Translation – L’amore tradotto” di Sofia Coppola

(USA/Giappone, 2003)

Per questo film la parola giusta è alchimia.

Accade raramente che degli attori, una sceneggiatura, un (o una!) regista e una location si fondino così delicatamente creando una magia dolce e romantica come è avvenuto per questa pellicola.

E’ inutile raccontare la storia di un incontro casuale, quello che conta è la magia che da questo sboccia e fiorisce, molto spesso creando un tipo di rapporto così unico che è difficile definire (…perso nella traduzione, appunto).

Si può solo vederlo e rivederlo godendo al meglio i suoi protagonisti: una bellissima Scarlett Johansson e un grande Bill Murray, candidato all’Oscar così come la pellicola era candidata anche come miglior film, miglior regia e migliore sceneggiatura.

Sofia Coppola alla fine vinse solo quello – si fa per dire – per la miglior sceneggiatura.

E per ultimo, un attimo di cordoglio per i distributori italiani – sempre più inafferrabili – che hanno aggiunto al titolo originale quell’inspiegabile e del tutto fuori contesto “L’amore tradotto”. Forse c’è una sorta di premio di produzione che guadagnano solo se inseriscono delle parole in italiano nel titolo …boh?

“La fine è nota” di Geoffrey Holiday Hall

(Sellerio, 1992)

Ho letto per la prima volta questo libro l’estate del 1992, ero in viaggio, un caro amico me lo prestò e io ne rimasi immediatamente folgorato.

Un po’ come accadde a Leonardo Sciascia (accanito lettore e appassionato di gialli, anche grazie al suo lavoro per il quale doveva affrontare frequenti e lunghi viaggi in treno) qualche decennio prima.

Nella prefazione a questa edizione è proprio lui che lo racconta: nell’autunno del 1952 comprò il libro “La morte alla finestra” (questo era il titolo di quella lontana prima edizione italiana) all’ultimo, proprio per non salire sul treno senza avere nulla da leggere, ma poi già dalle prime righe riconobbe la mano di un autore di razza.

Ora fra il grande Sciascia e il sottoscritto non ci sono – ovviamente… – paragoni, ma mi piace pensare almeno di avere subito lo stesso fascino che scaturisce già dalle prime pagine di questo splendido romanzo.

Sciascia era convinto che dietro al nome di Geoffrey Holiday Hall si nascondesse un grande e famoso autore (il grande scrittore siciliano cercò a lungo di contattarlo, anche attraverso il suo agente, ma senza successo) che per non intaccare la sua fama, visto che il giallo allora era considerato di serie B, avesse inventato questo curioso pseudonimo.

La Sellerio, saggiamente da quale grande casa editrice italiana è, lo ha ristampato cambiandogli il titolo, e per il nuovo si è ispirata a William Shakespeare e al suo immortale “Giulio Cesare”:

“Oh, se fosse dato all’uomo di conoscere
la fine di questo giorno che incombe!
Ma basta solo che il giorno trascorra e la
sua fine è nota”

Cristina Comencini nel 1993 ne ha girato un adattamento cinematografico, ambientandolo nel nostro Paese. Sfizioso, ma nulla a che vedere con l’opera di Geoffrey Holiday Hall (o chiunque si nasconda dietro quel nome).

“The Secret Disco Revolution” di Jamie Kastner

(USA/Canada/Emirati Arabi/UK/Francia, 2012)

Domanda: che cos’è stata la Disco Music, oltre a un normale fenomeno musicale?

Risposta: una delle più grandi rivoluzioni del Novecento!

Come dare torto all’autore di questo documentario dedicato al genere musicale che amo nel più profondo delle mie budella?

Ma bando ai gusti personali, è ineccepibile che la Disco abbia contribuito a dare spazio e autorevolezza a due “figure” della società che allora ne avevo poca: quella della donne e quella degli omosessuali.

La Disco, infatti, è stato il primo genere musicale in cui i testi richiamavano e inneggiavano esplicitamente al piacere fisico delle donne, “Love to Love You Baby” interpretata dall’indimenticabile Donna Summer è solo uno dei tanti esempi.

Negli anni della sua affermazione il femminismo riceve un appoggio importante e inaspettato da un tipo di musica che molti considerano sciocca e frivola, e per questo all’inizio poco controllata e censurata.

Per quanto riguarda poi gli omosessuali non si può negare che, proprio a distanza di tanti anni, gruppi come i Village People siano stati rivoluzionari strappando dall’ombra dell’oblio l’icona dei gay – anche se purtroppo non ancora del tutto –  associandola alla gioia di vivere e al culto del proprio corpo; icona che fino ad allora invece veniva comunemente accomunata solo ad accezioni negative e troglodite.

Ma non basta, rivoluzionario è stato anche il modo in cui la Disco si è imposta nel mercato.

Kastner, con interviste ai protagonisti e classifiche discografiche di quegli anni alla mano, ci mostra come un genere nato dentro pochi club newyorkesi abbia scalato le classifiche di tutto il mondo.

In quegli anni il principale – e di fatto unico – mezzo di promozione della musica era la radio, e per questo si era istaurato fra le maggiori emittenti e le major discografiche un profondo rapporto, diciamo così, “clientelare”.

Nessun disco poteva avere successo se non veniva trasmesso alla radio. Ma ecco che arriva la rivoluzione: i ragazzi che la sera prima ballano questo nuovo genere musicale, il giorno dopo corrono nei negozi a comprare i dischi.

Lentamente questi nuovi e sconosciuti interpreti/autori scalano le classifiche di vendita, fino ad arrivare alla vittoria finale: al numero 1 della top Billboard arriva “Love’s Theme” dell’immenso Barry White e la sua Love Unlimited Orchestra.

Per non parlare della cover di “Never Can Say Goodbay” interpretata da Gloria Gaynor, su cui la stessa redazione della rivista si chiede: “Qualcuno può spiegarci come sia possibile che questa canzone abbia venduto 20.000 copie in una settimana senza essere mai stata trasmessa da una radio?”.

Alle major e alle emittenti non rimane altro che adeguarsi al nuovo e incontrollabile genere, che invaderà anche il cinema con “La febbre del sabato sera” diretto da John Badham nel 1977, e avrà il suo tempio indiscusso nello Studio 54 di New York.

Ma ciò che è incontrollabile è per molti pericoloso e così…

Occhio però, non osate pensare che sia morta: la Disco è viva e combatte accanto a noi!

“Philomena” di Stephen Frears

(UK/USA/Francia, 2013)

Stephen Frears (già regista di pellicole come “Lady Henderson presenta”, “The Queen – La regina”, “Le relazioni pericolose”, “Rischiose abitudini” e “My Beautiful Laundrette” che nel 1985 lanciò Daniel Day Lewis) dirige questo splendido film in cui ripercorre la vera storia di Philomena Lee che, dopo 50 anni, finalmente riesce a ritrovare suo figlio.

Giovane e ingenua adolescente, alla fine degli anni Cinquanta nell’allora bigotta e cattolicissima Irlanda – del tutto simile all’allora nostra Italia – Philomena rimane incinta e viene cacciata di casa dal padre.

Come ragazza madre perde ogni dignità o diritto e non può fare altro che rinchiudersi in un convento per far nascere il figlio. Il piccolo, che può vedere al massimo un’ora al giorno, all’età di tre anni viene dato in adozione, senza che lei possa fare nulla per impedirlo.

Nonostante qualche anno dopo si sposi e si ricostruisca una nuova famiglia, nei cinquant’anni successivi per Philomena non passa giorno che non pensi al suo primo figlio o che non cerchi di ritrovarlo, ma senza successo: nel convento i documenti relativi all’adozione sono andati perduti.

Le cose prendono una piega inaspettata quando sua figlia la mette in contatto con un giornalista che decide di aiutarla…

L’epilogo struggente della storia non lo racconto – epilogo che la dice lunga sullo spirito cristiano e su chi lo possiede veramente – perché questo film va visto e basta. Soprattutto pensando che ciò che racconta è accaduto realmente.

Grandissima Judi Dench (già Oscar nel 1999 per “Shakespeare in love”), incredibile pensare che sia la stessa attrice che solo l’anno scorso impersonava “M” in 007. La sceneggiatura è firmata dallo stesso Steve Coogan assieme a Jeff Pope e Martin Sixsmith, giornalista e autore del libro “The Lost Child of Philomena Lee” pubblicato per la prima volta nel 2009, e impersonato dallo stesso Coogan nella pellicola.