“L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono

(Salani, 1953/2011)

E’ vero, è un libro brevissimo, anche considerando la prefazione e la postfazione (che superano di consistenza lo scritto originale di Giono – autore, fra gli altri, del romanzo storico “L’Ussaro sul tetto”) ma è bellissimo.

Ed è una storia vera che concilia col mondo.

Nel 1913 Giono, poco più che adolescente ma già amante della natura, in una delle sue passeggiate in Provenza incontra casualmente un pastore che passa le giornate a piantare alberi nelle zone montane più spoglie e desolate.

Col passare degli anni Giono torna nuovamente nella zona ammirando come l’intero paesaggio, e con esso la vita dei paesi limitrofi legati alle nuove foreste neonate, cambi in maniera miracolosa, senza che nessuno sospetti che dietro tale incredibile cambiamento ci sia stata solo la pertinacia di un semplice pastore.

Gli uffici preposti, infatti, parlano addirittura di “foreste spontanee”.

Insomma, come diceva il grande Gianni Rodari: “Per fare un albero ci vuole un seme!”.

“Equus” di Sidney Lumet

(USA/UK, 1977)

Il dramma teatrale “Equus” è uno dei più famosi e rappresentati fra quelli a firma dell’inglese Peter Shaffer (solo qualche anno fa il maghetto Daniel Radcliffe lo ha reinterpretato in teatro).

Andato in scena nel 1973, quattro anni dopo Sidney Lumet ne realizza un bellissimo adattamento cinematografico con Richard Burton, lo stesso attore che in quegli anni lo interpreta con enorme successo a Broadway.

Allo psichiatra Martin Dysart (Burton) viene chiesto di occuparsi di Alan Strang (il bravissimo Peter Firth), un giovane stalliere che in un gesto di apparente follia ha inspiegabile accecato tutti i cavalli di cui si occupava amorevolmente da tempo.

Le regioni di un gesto così tragico vanno ricercate nella mente e nella storia personale del ragazzo…

Davvero un bel film con due grandi interpreti, vincitori entrambi del Golden Globe.

“Mattatoio n. 5 o La Crociata dei Bambini (Danza obbligata con la Morte)” di Kurt Vonnegut Jr

(Mondadori, 1969)

Ci sono molti modi per raccontare la devastazione fisica e morale che una guerra lascia in chi vi partecipa e sopravvive.

Vonnegut lo fa strutturando i suoi ricordi (visse in prima persona, durante la Seconda Guerra Mondiale, il bombardamento di Dresda che nella notte fra il 9 e il 10 marzo 1945 fece quasi il doppio delle vittime di quello infausto di Hiroshima) scrivendo una storia di fantascienza: il soldato americano Bill Pilgrim, che sarà testimone suo malgrado della distruzione di Dresda, viaggia nel tempo e soprattutto è uno dei pochi esseri umani a venire rapito dagli extraterrestri.

Ma la trama è quasi una scusa per ricordare – e non lo si fa mai abbastanza! – che cos’è l’abominio di una guerra, che rimane qualcosa di inimmaginabile per chi non l’ha vissuta.

Dallo splendido e tragico libro di Vonnegut – che mi ha fatto venire gli incubi, ma che merita comunque di essere letto – fra i grandi simboli del pacifismo contemporaneo, è stato tratto il film “Mattatoio n. 5” diretto nel 1972 da George Roy Hill (regista di “Butch Cassidy” e “La stangata”) che ha come colonna sonora Glenn Gould che interpreta Johann Sebastian Bach.

Tragicamente attuale…

“Schindler’s List” di Steven Spielberg

(USA, 1993)

“…Basta fare finta di niente” è la risposta che dava Primo Levi a chi gli chiedeva come alcuni esseri umani siano potuti arrivare a fare indisturbati cose così terrificanti come quelle che fecero i nazi-fascisti nell’Olocausto.

E per evitare che questo possa ripetersi c’è solo un grande e doloroso metodo: ricordare.

Oggi “Giornata della Memoria” delle vittime della Shoah, come e più che negli altri giorni dell’anno, è un dovere rivivere quella che è stata forse la vergogna più grande della nostra specie. E per farlo il film diretto da Spielberg può aiutarci come poche altre pellicole.

La sua potenza narrativa è talmente forte che anche il grande Stanley Kubrick, che per decenni ha avuto in testa l‘idea di realizzare un suo film sulla Shoah, appena visto abbandonò il progetto: trovava impossibile aggiungere qualcosa all’Olocausto raccontato da Spielberg.

Senza passato non c’è futuro.

“Broadway Danny Rose” di Woody Allen

(USA, 1984)

Il 27 Gennaio del 1984 usciva nelle sale degli Stati Uniti “Broadway Danny Rose” di Woody Allen,  una delle migliori fotografie – malinconiche ma allo stesso tempo esilaranti – del mondo dello spettacolo americano.

Come piace molto ad Allen, il film è di fatto la ricostruzione che fanno alcuni agenti o ex attori (fra cui c’è il vero Jack Rollins storico produttore dello stesso Allen e, tanto per fare un esempio, del David Letterman Show) degli avvenimenti più nefasti e allo stesso tempo divertenti della carriera del piccolo e sfortunato agente newyorchese Danny Rose.

L’episodio più significativo che il gruppo ricorda è il rapporto che ha questi con il cantante Lou Canova (Nick Apollo Forte) al quale Rose deve “custodire” la sua nuova amante Tina Vitale (un’imbottita e femme fatale Mia Farrow).

Non è fra i film di Allen che di solito si ricorda, ma “Broadway Danny Rose” è davvero una perla.

“The Blues Brothers – I fratelli Blues” di John Landis

(USA, 1980)

Su questo capolavoro inossidabile che va dal musical alla commedia surreale è stato detto tanto. Ma mai abbastanza!

Oltre a incoronare definitivamente John  Belushi icona immortale di una generazione, questa pellicola diretta da Landis concilia quella stessa nuova generazione con un genere musicale che allora sembrava adatto solo alle precedenti epoche.

Oltre ai grandi interpreti, la grande musica e alcune spettacolari sequenze, il film è scritto davvero alla grande (la sceneggiatura è firmata da Dan Aykroyd e lo stesso John Landis), e anche per questo rimane immortale come i suoi due protagonisti  “Joilet” Jake ed Elwood Blues.

Grande piccolo cameo di Steven Spielberg nei panni dell’impiegato che alla fine emette la benedetta fattura per salvare l’orfanotrofio e di Frank Oz che, all’inizio, riconsegna gli effetti personali a Jake prima che questo esca dal penitenziario.

Immortale.

“Ritorno al futuro” di Robert Zemeckis

(USA, 1985)

Pochi film hanno rappresentato davvero i sogni della generazione che a metà degli anni Ottanta usciva dall’adolescenza come “Ritorno al futuro”.

Con una sceneggiatura ad orologeria – scritta dallo stesso Zemeckis insieme a Bob Gale (già autore dello script di “1941: allarme a Hollywood” diretto da Spielberg nel 1979) e candidata all’Oscar (battuta da quella di “Witness – Il testimone” di Peter Weir, che adoro ma che secondo me non possiede la deliziosa e magica “perfezione” di quella di Zemeckis e Gale), “Ritorno al futuro” è uno dei classici dieci film da portare sull’isola deserta.

Ogni volta che lo rivedi scopri una nuova chicca, per non parlare poi della colonna sonora.

Rifiutato dalla Disney per il bacio “incestuoso” (e ci vuole tanta buona volontà per chiamarlo bacio) fra Marty (il grande Michael J. Fox) e sua madre Lorraine (Lea Thompson) il film in poche settimane diventa una dei maggiori incassi dell’Amblin Entertainment di Steven Spielberg, consacrando giustamente Zemeckis come uno dei più importanti registi della nuova generazione.

Visto l’enorme successo, la produzione decise di girare due sequel e – grande novità per i tempi – avviare un’unica produzione senza aspettare l’esito del botteghino.

Molto più divertente il III, ambientato nel Far West, che il II ambientato in un cupo futuro, ma nessuno dei due è all’altezza del primo.

E che dire delle svariate invenzioni futuristiche che col passare del tempo si sono concretizzate, come le scarpe a chiusura automatica…

Intramontabile.

“Figli di un Dio minore” di Randa Haines

(USA, 1986)

Tratto dalla pièce teatrale di Mark Medoff, “Figli di un Dio minore” è stato uno di primi grandi film hollywoodiani a parlare di disabilità e di come questa entri nell’intimità di una relazione sentimentale e sessuale.

Girata con molta elegante sobrietà, grazie ai suoi due bravissimi – …e bellissimi – interpreti, William Hurt e Marlee Matlin (che con questa interpretazione vince l’Oscar come migliore attrice protagonista) questa pellicola è fra quelle che hanno segnato cinematograficamente gli anni Ottanta.

Il film è fra le prime pellicole di successo planetario a dimostrare come si può raccontare la disabilità senza false ipocrisie o lacrimevoli compassioni, ricordando che nel mondo anglosassone in generale, e soprattuto in quello statunitense, la diversità non è un tabù stereotipato, come invece accade ancora fin troppo spesso da noi.

Nonostante il tempo è sempre bello riguardarlo.

“Argo” di Ben Affleck

(USA, 2012)

Nel 1979 gli Stati Uniti accolgo la domanda di asilo fatta dall’ex Scià di Persia (ormai divenuto Iran dopo la rivoluzione) Mohammad Reza Pahlavi.

Il nuovo Iran ne chiede immediatamente l’estradizione per poter processare e – molto probabilmente – giustiziare colui che ha affamato e controllato con metodi sanguinari il popolo per oltre tre decenni.

Ma gli USA non cedono – grazie soprattutto ai fiorenti accordi commerciali che ha con lo stesso Scia – e dopo giorni di feroce protesta alcuni manifestanti invadono l’ambasciata americana di Teheran.

Ma, quasi per caso, sei dipendenti del corpo diplomatico riescono a lasciare l’edificio e vengono ospitati clandestinamente nell’abitazione dell’ambasciatore canadese in Iran.

Mentre per i 50 prigionieri americani nell’ambasciata la situazione è drammatica ma stabile (tutta l’opinione pubblica mondiale biasima il grave atto commesso dall’Iran e osserva attentamente cosa accade) per i 6 clandestini le cose si fanno molto più pericolose.

Lasciando volontariamente il suolo americano dell’ambasciata posso essere considerati ufficialmente spie e giustiziati nel mondo più cruento e spettacolare possibile, e inoltre il Canada preme per non avere più “ospiti” così pericolosi.

La C.I.A. cerca freneticamente di elaborare un piano per far uscire i 6 dall’Iran, ma ogni proposta sembra impraticabile. Lo specialista in fuoriuscite clandestine Tony Mendez (Ben Affleck) propone l’unico piano folle ma attuabile: far passare i clandestini come componenti di una troupe cinematografica intenta a fare sopralluoghi per girare un film di fantascienza – sulla scia del successo di “Guerre stellari” che ancora anima il pianeta – ambientato in Iran.

Tutto deve essere fatto con la massima attenzione, e per questo viene creata una vera e propria casa di produzione e acquistata una sceneggiatura dal titolo “Argo”. Ma, come sempre, le cose non sono così facili come sembrano…

Premio Oscar come miglior film e come miglior sceneggiatura non originale 2013, “Argo” – anche per chi conosce già l’epilogo della vicenda dei 6 clandestini e di tutti gli altri prigionieri dell’ambasciata – ispirandosi a fatti realmente accaduti è serrato ed emozionante fino all’ultimo.

Affleck torna a vincere l’Oscar come autore della sceneggiatura dopo quello per “Willl Hunting – Genio ribelle” del 1997.

“Getta la mamma dal treno” di Danny DeVito

(USA, 1987)

Questa spassosa commedia rappresenta l’esordio alla regia per il grande schermo di Danny DeVito.

Chi lo considera un semplice comico caratterista sbaglia, e anche di grosso. DeVito è uno degli uomini di cinema più importanti degli ultimi 20 anni. La sua carriera inizia come attore, è vero, ma già dagli anni Settanta inizia parallelamente anche la sua esperienza di produttore.

Questo grazie anche all’amicizia che lo lega al suo coinquilino di quegli anni, un affascinante piacione, che si è messo in testa di fare il produttore cinematografico per seguire le impronte paterne: il giovane Michael Douglas.

Nel 1975 Douglas produce “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, film a cui partecipa come attore DeVito, e che trionfa al botteghino e agli Oscar. DeVito continua a fare l’attore e il comico di successo, ma il suo interesse per ciò che c’è dietro della MDP è sempre più importante, e prima di arrivare a dirigere un vero e proprio lungometraggio continua la sua gavetta fino a questa pellicola, per arrivare poi a forse la sua migliore in assoluto: “Matilda 6 Mitica” del 1996.

“Getta la mamma dal treno”, infatti, anche a distanza di quasi 30 anni è una commedia molto divertente e ben riuscita, che ammicca al grande Hitchcock e prende in giro il mondo degli scrittori.

Negli anni Novanta poi arriva al definitiva consacrazione anche come produttore: finanzia giovani autori esordienti  – o quasi – dietro la MDP come Ben Stiller in “Giovani, carini e disoccupati”, e soprattutto crede in un giovane sceneggiatore squinternato ma geniale e gli produce la sua seconda opera che di fatto rivoluzionerà il modo di scrivere cinema: “Pulp fiction”.

Fra le altre pellicole, DeVito produce: “Gattaca – La porta dell’universo”, “Man on the Moon”, “Erin Broncovich – Forte come la verità” e “Diventeranno famosi”, tanto per citarne alcuni.

Insomma, Danny DeVito è un grande uomo di cinema, e in questa sua opera prima già lo si percepisce.

E adesso un piccola chicchetta: lo spassoso protagonista del film è Billy Crystal, che in una scena litiga con il suo ex agente interpretato dal regista Rob Reiner. I due, neanche un paio di anni dopo saranno rispettivamente protagonista e regista di un capolavoro record d’incassi: “Harry ti presento Sally” …pura coincidenza?