Federico Fellini

A vent’anni dalla morte del grande Federico Fellini è ancora viva e fertile la sua eredità.

Al cinema, come molti della mia generazione, in realtà ne ho viste poche di opere felliniane: “E la nave va” (1983) con la mia scuola media, “Ginger e Fred”(1986), ”Intervista”(1987) e “La voce della Luna”(1990).

Il resto della sua cinematografia  – tranne poi in qualche rara retrospettiva in pellicola – solo attraverso il piccolo schermo.

E nonostante questo, film come “La strada”, “Le notti di Cabiria”, “La dolce vita”, il grande “8 e ½” e “Amarcord” mi hanno stregato e affascinato.

Del suo genio, soprattutto oggi, tutti ne parlano sviscerandone ogni piccolo elemento ma, oltre a queste cose, io vorrei semplicemente ricordare la grande ironia che impregna ogni sua opera. Non è un caso che fosse nato come autore di battute e gag, fra gli altri di Aldo Fabrizi, lavoro per il quale incontrerà Sergio Amidei, Roberto Rossellini e Anna Magnani sul set di “Roma Città Aperta”.

Film per il quale firma due scene memorabili: l’imbarazzo di don Pietro (interpretato da Fabrizi) davanti alla statua di una ninfa nuda e la fantastica battuta: “ammappelà Don Piè che padellata che j’avete dato!” che poco dopo dice un ragazzino alla stesso don Pietro.

Di battute e sketch esilaranti sono pieni tutti i suoi film, ma io ne preferisco due su tutte: la ricostruzione di una sera all’avanspettacolo durante la Seconda Guerra Mondiale in “Roma”, e i due pittori sospesi sulla grande scenografia in “Intervista”.

Un ultima cosa: leggendo di come Fellini fosse stato e sia tutt’ora un monumento alla cultura italiana, l’emblema di come il genio italico possa essere amato e preso ad esempio nel mondo mi chiedo – oggi come vent’anni fa – ma perché allora aveva tutti quei problemi per trovare produttori disposti a finanziargli un film?

Mi ricordo bene, infatti, che alla fine degli anni Ottanta, fra gli addetti ai lavori, ci si lamentava di questo. E’ vero, il cinema italiano a causa della televisione era economicamente – e non solo! – in crisi.

Ma era davvero così complicato e rischioso produrre un film che certamente poi si sarebbe stato venduto in tutto il mondo? I più maligni imputavano la cosa non tanto a ragioni di distribuzione, ma a una specie di ripicca nata dal film “Ginger & Fred”.

Nel film una vecchia coppia di ballerini viene richiamata sulla ribalta per partecipare a uno show revival presso una televisione privata, il cui proprietario è uno strano commendatore che vanta di avere un passato artistico di nome Lombardoni …ma certamente si tratta di cattiverie, solo cattiverie!

“Labyrinth – Dove tutto è possibile” di Jim Henson

(USA/UK, 1986)

A Jim Henson, prematuramente scomparso nel 1990, quelli della mia generazione devono tanto.

E’ lui infatti, insieme alla moglie Jane (scomparsa pochi mesi fa), a portare la grande tradizione dei burattini sul piccolo schermo che avrà il suo apice negli anni Settanta col mitico “Il Muppet Show”.

Ma tornando a questo fantastico film – e l’aggettivo non è certo casuale – il cui soggetto è stato scritto dallo stesso Henson insieme a Dennis Lee mentre la sceneggiatura è firmata da Terry Jones (uno dei mitici Monty  Python), “Labyrinth” legittima definitivamente il genere fantasy nel mondo del cinema e dei giochi di ruolo prima e dei videogiochi poi.

La storia di Sarah (una bellissima Jennifer Connelly) che, costretta per l’ennesima volta a fare la babysitter al fratellino Toby, lancia un anatema al quale risponde subito Jareth il Re dei Goblin (un diabolico e fascinoso David Bowie) rapendo il piccolo, è davvero immortale.

Il viaggio di Sarah, che dovrà attraversare il labirinto per salvare il fratello, rimane uno dei viaggi nella fantasia pura più belli del cinema.

Due cose su tutto: la Gora dell’Eterno Fetore – i cui effluivi posso uccidere – e Sir Didymus e il suo fide destriero Ambrogio… indimenticabili!

“Shantaram” di Gregory David Roberts

(Neri Pozza, 2007)

Ci sono biografie che aiutano a comprendere un’epoca e un luogo, e questa autobiografia di Roberts ci illumina su una nazione e sul suo popolo: l’India.

Gregory David Roberts è un giovane attivista politico australiano, che viene condannato a 19 anni di carcere per le rapine commesse. Roberts è anche un tossicodipendente, e la vita nel carcere è sempre più insostenibile, per questo decide di evadere e di espatriare.

I suoi mezzi gli permettono una fuga sicura fino a Bombay (allora si chiamava ancora così, parliamo della fine degli anni Settanta) dove Roberts decide di stabilirsi.

Col passare del tempo entrerà sempre più nel tessuto della città e della nazione che lo ospitano. Le esperienze, a volte sublimi e a volte tragiche, lo porteranno finalmente a ritrovare se stesso.

Con gli occhi di Roberts scopriamo la vita negli Slum, il “Leopold Cafè” (che qualche anno fa è stato davvero vittima di un attentato sanguinario), la vita nelle infernali carceri indiane, il combattere per sopravvivere e soprattutto il grande spirito di accoglienza che è insito nel popolo che abita il sub continente indiano.

Chi si spaventa – sbagliando – per le dimensioni dell’edizione cartacea si compri un e-reader!

Nel giugno del 2007 ho avuto la fortuna di incontrare Roberts in una libreria romana mentre presentava il suo libro. Ho avuto il piacere di parlare con lui per molto tempo, non solo del suo splendido testo ma anche di altri autori come ad esempio Stephen King, convenendo entrambi che uno dei pochi adattamenti all’altezza delle sue opere è la prima serie televisiva “L’ombra dello scorpione“. E mentre mi parlava non potevo fare a meno di osservare il suo corpo tonico e teso come quello di un atleta, il suo viso segnato dalla vita e il suo sguardo da pantera pronta a vendere cara la pelle.

Indimenticabile.

Luigi Magni

Ieri mattina se ne è andato Luigi Magni, grande regista, ma anche grande sceneggiatore del nostro cinema.

Dopo aver partecipato alla stesura di alcune commedie leggere da botteghino, Magni firma quella de “Il mio amico Benito”, diretta da Giorgio Bianchi nel ’62 e ambientata del Ventennio, con un grande Peppino De Filippo nei panni di un uomo onesto e retto che viene bistratto da tutti – compresi famiglia e colleghi – fino a quando, improvvisamente, si ricorda di essere stato compagno d’armi del Mussolini nella Prima Guerra Mondiale, evento che potrebbe davvero cambiare la sua esistenza, ma che alla fine la sua integrità lo porterà a rinnegare.

Nel ’64 scrive “Le voci bianche” di Pasquale Festa Campanile, ambientato nella Roma papalina, con un bravissimo Paolo Ferrari. L’anno dopo collabora con Lizzani allo script de “La Celestina P…R…”. Il 1968 è l’anno in cui esordisce alla regia con “Faustina”, ma collabora anche con Monicelli ne “La ragazza con la pistola”.

L’anno successivo esce il film che molti considerano il suo capolavoro “Nell’anno del Signore”, con uno dei cast più importanti del nostro cinema. Nel 1971 collabora con l’amico Nino Manfredi alla sceneggiatura di “Per grazie ricevuta”, diretto dallo stesso Manfredi e ancora oggi considerata una delle migliori commedie all’italiana a colori.

Sempre nel ’71 scrive e dirige il crepuscolare “Scipione detto anche l’Africano”. Nel 1973 arriva “La Tosca” tratto dal dramma di Sardou e musicato splendidamente dallo stesso Magni assieme al maestro Armando Trovajoli. “Nun je dà retta Roma” è uno dei momenti più belli del cinema italiano degli anni Settanta.

Nel 1976 partecipa ai film a episodi  “Signore e signori, buonanotte” e “Quelle strane occasioni”, mentre nel 1977 firma un’altra pietra miliare: “In nome del Papa Re”.

Con la crisi del cinema anche Magni, come molti altri grandi autori, passa alla televisione. Nel 1983 scrive e dirige “State buoni …se potete” con un bravo Johnny Dorelli nei panni di San Filippo Neri e con le musiche di Angelo Branduardi.

Nel 1984 gira il bellissimo documentario “L’addio a Enrico Berlinguer”. Nel 1987 firma “Secondo Ponzio Pilato”, sottovalutato dal pubblico forse per l’interpretazione gigiona – troppo alla “Manfredi” -di Nino Manfredi nelle vesti di uno dei temporeggiatori pavidi più famosi della storia.

Nel 1989 debutta al teatro Sistina di Roma “I 7 Re di Roma” per la regia di Pietro Garinei, con uno stratosferico Gigi Proietti, scritto dallo stesso Magni con le splendide musiche di Nicola Piovani.

Nel 1990 firma “In nome del popolo sovrano”, che torna alle origini nella sua Roma papalina divisa nel Risorgimento. Tema che affronta nuovamente, e per l’ultima volta, ne “La Carbonara” nel 2000, che chiude di fatto la sua cinematografia.

Ma, come sceneggiatore lasciatemelo ricordare anche per un altro film, che ha accompagnato la mia infanzia: “Il soldato di ventura”, diretto da Pasquale Festa Campanile nel 1976, con un Bud Spencer in gran forma nei panni di Ettore Fieramosca durante la mitica “Disfida di Barletta”.

E andiamo! Ricordiamoci che al momento siamo i detentori del Trofeo Garibaldi! Non dico altro…

Vincent Price

Il 25 ottobre del 1993 se ne andava Vincent Price.

Nato a Saint Louis il 27 maggio 1911, Vincent Price è il rampollo di una ricca famiglia americana: suo nonno inventò la prima crema di lievito tartaro rendendo più che benestanti tutti i suoi eredi.

Appassionato d’arte, si laurea a Yale in storia dell’arte e prosegue i suoi studi a Londra. L’amore per la recitazione arriva attraverso il teatro, ma presto il cinema si accorge di lui: fascinoso, con due occhi blu penetranti, una voce calda e sensuale, e soprattutto alto 193 centimetri.

Ovviamente i suoi sono i ruoli del cattivo o del perfido: nel 1948 interpreta il malvagio cardinale Richelieu ne “I tre moschettieri “ con Gene Kelly e Lana Turner.

Alla fine degli anni Quaranta, alla radio, presta la sua voce a Simon Templar, l’eroe della serie “Il Santo” che nei decenni successivi approderà anche alla televisione e poi al cinema.

E’ negli anni Cinquanta che passa ai film dell’orrore – anche se partecipa al grande “Quando la città dorme” di Fritz Lang del 1956 – con “La maschera di cera” (1953) e il memorabile “L’esperimento del Dottor K” (1958), da cui Cronenberg realizzerà il terrificante remake “La mosca” nel 1986.

Lo stesso Price ha raccontato più di una volta le difficoltà che ebbe per girare la scena finale del film, quando doveva interpretare la “mosca” con la testa del Dottor K che veniva finalmente uccisa: nessuno del cast riusciva a smettere di ridere.

Con gli anni Sessanta arriva la collaborazione col geniale produttore e regista Roger Corman che lo porta ad interpretare film come “Il pozzo e il pendolo” (1961), “I racconti del terrore”(1962) e “La maschera della morte rossa”(1964).

Lo stesso anno interpreta quello che poi sarebbe diventato un cult:  “L’ultimo uomo della Terra” diretto da Ubaldo Ragona e Sidney Salkow, con Giacomo Rossi Stuart e Franca Bettoia, girato a Roma nel quartiere EUR, e tratto dal romanzo di Richard Matheson “Io sono leggenda” – che tornerà numerose volte sul grande schermo in vari adattamenti fra cui spiccano “La notte dei morti viventi “ di George Romero del 1969 e il bellissimo “1975: occhi bianchi sul pianeta Terra” di Boris Sagal del 1971.

Con gli anni Settanta l’horror diventa più cupo e interiore e Price presta le sue fattezze a due grandi pellicole, allora etichettate semplicemente di serie B ma oggi giustamente rivalutate: “L’abominevole Dr. Phibes”(1971) di Robert Fuest, e “Oscar insanguinato” (1973) diretto da Douglas Hickox in cui Price interpreta un attore shakespeariano stroncato dalla critica che torna per vendicarsi spettacolarmente contro i suoi detrattori.

Col passare del tempo le caratteristiche del film del terrore cambiano ma Price rimane vivo nell’immaginario collettivo: è sua la voce terrificante che accompagna l’avvento degli zombie nel video “Thriller” di Michael Jackson del 1983.

Tim Burton lo vuole nel suo “Edward mani di forbice” (1990), ma durante le riprese la sua parte viene ridotta a causa della malattia che lo sta consumando e che pochi anni dopo lo ucciderà.

Per noi Vincent Price è soprattutto un volto dei film dell’orrore, ma grazie (o questa volta a causa?) del doppiaggio ci siamo persi la sua voce profonda e inquietante, con una dizione perfetta che ha stregato generazioni di spettatori.

“L’uomo che amava le donne” di François Truffaut

(Francia, 1977)

Bertrand Morane (Charles Denner) ama le donne, e da queste è profondamente corrisposto. Bertrand non è bello, ma ha fascino e sa come conquistarle per una notte o poco più.

Nel suo letto di donne ne sono passate tante, e forse la paura di perdere il ricordo di qualcuna lo porta a scrivere un libro autobiografico che intitola “Lo stallone”.

Il testo viene accettato da una casa editrice che incarica la propria editor Geneviève (Brigitte Fossey) di aiutare l’autore nella sua stesura finale. Anche Geneviève finirà nel letto di Bertrand e questo le permetterà di capire al meglio e intimamente “L’uomo che amava le donne”, che sarà il titolo definitivo del libro, da lei stessa proposto e da Bertrand felicemente accettato poco prima di incontrare il suo destino.

Che ci sia qualcosa di profondamente biografico in questa splendida pellicola di François Truffaut dedicata al mito del Don Giovanni è scontato. Soprattutto pensando al funerale di Bertrand, il regista ha ricreato suo malgrado quello che molto probabilmente pochi anni dopo – troppo pochi per il cinema francese e non solo! – è avvenuto davvero alla sua morte prematura.

A differenza di Don Giovanni però, Bertrand-Truffaut non brama la conquista di una donna “…pur di metterla in lista”, ma le cerca e le possiede perché le ama, a modo suo e senza fermarsi a nessuna. Il suo più grande dolore è quello di sapere che non potrà averle tutte.

Un capolavoro indiscusso. Il mio film preferito del maestro François Truffaut.

“Amarcord” di Federico Fellini

(Italia/Francia, 1973)

Federico Fellini lo ha sempre detto: la musica nella vita, come nel cinema, ha un ruolo fondamentale.

Il riferimento al suo grande amico e collaboratore Nino Rota è fin troppo palese. Infatti, non si può pensare a questo capolavoro di Fellini senza pensare alla musica scritta da Rota.

I ricordi giovanili di Fellini, scritti assieme a Tonino Guerra – la piccola e grande Rimini del Ventennio, l’arrivo dell’adolescenza e le infinite dinamiche familiari – si mischiano splendidamente con le note di Rota, tanto da diventare tutt’uno nel nostro immaginario.

Con alcune delle scene più belle della storia del cinema, come quella con zio Teo (interpretato da un bravissimo Ciccio Ingrassia) che sale su albero gridando “Voglio una donna!” o il passaggio del mitico transatlantico “Rex”, “Amarcord” è davvero un capolavoro assoluto e fa parte indiscutibilmente del patrimonio dell’umanità.

Non mi stanco mai di rivedere il racconto di un mondo che è scomparso decenni prima che io nascessi, ma che rimane sempre così attuale.

“Cose da salvare in caso d’incendio” di Haley Tanner

(Longanesi, 2011)

Vaclav ha 10 anni ma sa già che nella vita sarà un mago, un grande mago illusionista. La sua spettatrice preferita – e molto spesso unica – è Lena, che di anni ne ha 9, di cui lui è fin troppo palesemente innamorato.

I due vivono a New York e appartengono alla comunità russa della Grande Mela. Chiariamoci però, non certo nella lussuosa Manhattan, ma nella periferia della città che da secoli è la casa degli immigrati di tutto il mondo che inseguono il sogno americano.

Vaclav vive con i suoi genitori, Oleg e Rasia, che arrivano a fine mese grazie al taxi che il padre guida per tutta la città. Lena, invece, vive con la zia, la sorella della madre, che per mantenersi si prostituisce.

Il lato oscuro della vita di Lena, o meglio quello della zia, rischia drammaticamente di inghiottirla, ma il suo rapporto infantile – e per questo splendido – con Vaclav potrà salvarla.

Haley Tanner firma un romanzo d’esordio che è soprattutto una storia dolce e romantica, anche se, come in tutte le storie d’amore di formazione, ha riflessi scuri e dolorosi.

“I Jefferson” di Don Nicholl, Michael Ross e Bernard West

(USA, dal 1975 al 1985)

Oltre al grande e inarrivabile Sherman Hemsley – che veste i panni dello scorbutico George Jefferson – e a un cast di tutto rispetto, il successo di questa sit-com è legato all’idea motore: un figlio del ghetto nero di Harlem diventa ricco e si trasferisce nella Manhattan bene, cosa che per gli anni Settanta era quasi fantascienza.

E le parole della sigla di testa lo riassumono bene:

Well we’re Movin’ on Up! (Movin’ on Up!)

To the east side! (Movin’ on Up!)

To a dee-luxe apartment in the sky…

We’re movin’ on up! (Movin’ on Up!)

To the east side! (Movin’ on Up!)

We’ve finally got a piece of the pie!”

Per non parlare poi del gretto razzismo di George verso i bianchi, e soprattutto contro le coppie miste, come quella che abita sopra di lui (moglie di colore – interpretata da Roxie Roker madre di Lenny Kravitz – e marito bianco, che diventeranno poi i suoi consuoceri).

Fra le puntate che preferisco c’è quella in cui un pubblicitario senza scrupoli convince George a finanziare una campagna pubblicitaria per le sue lavanderie sulla base – ovviamente del tutto fittizia – che lui sia un pronipote diretto del presidente Thomas Jefferson.

Memorabili anche i duetti con la moglie Louise (Isabel Sanford) la cameriera Florence (Marla Gibbs) l’unica di fatto che riesce a zittirlo.

Come per altre serie, noi possiamo godere al meglio dei Jefferson grazie alla grande tradizione dei nostri doppiatori: in questo caso un applauso a Enzo Garinei e all’indimenticabile Isa Di Marzio.

“The Sessions – Gli incontri” di Ben Lewin

(USA,  2012)

“Lascia che ti tocchi con le mie parole.

Le mie mani giacciono flosce come guanti vuoti.

Lascia che le mie parole accarezzino i tuoi capelli,

scivolino lungo la tua schiena e solletichino il tuo ventre.

Le mie mani, leggere e libere di volare come mattoni,

ignorano i miei desideri e si rifiutano ostinatamente di esaudire

le mie voglie più silenziose.

Lascia entrare nella tua mente le mie parole, portatrici di fiamme.

Accoglile nel tuo essere, così che possano accarezzarti dentro dolcemente”.

Queste bellissime frasi, che si intitolano “Poesia d’amore per nessuna in particolare”, sono state scritte da Mark O’Brien, classe 1949, che nel 1955 venne colpito da una grave forma di poliomielite che lo costrinse a passare il resto della sua vita sdraiato su un lettino quasi sempre dentro un polmone d’acciaio.

Ma il film “The Sessions – Gli incontri” (non sprecherò parole sul genio dei distributori italici!) non parla tanto di questo dramma, ma di quello che spesso diventa il sesso per i disabili.

Si perché Mark fino all’età di 38 anni considerava le proprie polluzioni sessuali come una punizione divina visto che, a causa della sua grave patologia, non riusciva neanche a muovere le proprie mani.

Nel 1988 gli viene chiesto di scrivere un articolo sull’argomento, è l’occasione per affrontare il grande tabù – Mark è anche un cattolico praticante – e decide quindi di rivolgersi a una “terapista sessuale” esperta di disabilità; con la quale, durante quattro sedute, esplorerà la propria sessualità assieme a quella di una donna vera in carne e ossa.

Senza dubbio un tema difficile. Ma la cosa più straordinaria è che è uno dei film più romantici che abbia visto negli ultimi tempi, senza cadute nel pietistico o nel melenso.

Con una grande Helen Hunt – candidata all’Oscar come miglior attrice non protagonista – nei panni affatto semplici della terapista sessuale.

Da vedere.