“Il prestanome” di Martin Ritt

(USA, 1976)

“Caccia alle streghe” è stata definita la persecuzione con cui vennero isolati e ghettizzati molti artisti americani comunisti o simpatizzanti comunisti, alla fine degli anni Quaranta, sulla scia delle presunte attività “anti-americane” urlate dal Senatore Joseph McCarty, e da qui anche il termine “Maccartismo”.

Ma la Commissione che appurava tali attività, in realtà esigeva solo un atto, un atto puro di delazione e denuncia nei confronti degli altri, anche se i nomi erano già stati fatti e ben conosciuti: per tornare a lavorare quindi bastava denunciare. Era perciò la paura ad annientare le coscienze.

Ma Howard Price (un inconsueto Woody Allen) è un piccolo allibratore che per sbarcare il lunario fa il cassiere in una tavola calda a Manhattan. Un giorno Alfred, un suo vecchio compagno di scuola, lo supplica di aiutarlo: per i suoi passati da simpatizzante comunista è finito nelle liste nere della Commissione Contro le Attività Anti-Americane, e nessuna televisione lo fa più lavorare.

Ha bisogno quindi di un “prestanome” che firmi e presenti le sceneggiature al posto suo. A lui andrà il 10%. Howard è un uomo senza scrupoli e accetta felice. Nel giro di poche settimane diventa un autore televisivo famoso, ben pagato e soprattutto prolifico: ad Alfred si aggiungono altri due proscritti.

Tutto sembra procedere al meglio ma gli occhi della Commissione immancabilmente si posano su di lui. Howard è un uomo senza morale e quindi non si preoccupa: darà loro quello che vogliono. Ma pochi giorni prima dell’udienza Hecky Brown (un grandioso Zero Mostel) – attore televisivo proscritto al quale la Commissione ha chiesto di spiare Price per poter essere riabilitato – si suicida, e le cose cambiano…

Ritt firma un’emozionante pellicola che riproduce magistralmente gli anni Cinquanta e soprattutto quel clima di terrore e delazione che regnava nel mondo dello spettacolo. Memorabile scena finale con un grande Allen.

Da vedere tutto, compresi i titoli di coda in cui ai nomi del cast viene associato l’anno di inserimento nelle liste nere, si perché, fra gli altri, Martin Ritt, Zero Mostel e Walter Bernstein  – autore della sceneggiatura – fra il 1950 e il 1953 finirono tutti all’indice.

“Essi vivono” di John Carpenter

(USA, 1988)

La cinematografia di John Carpenter è piena di grandi cult, ma scelgo questo perché mi ricordo bene gli “edonistici” anni Ottanta e, allo stesso tempo, sembra scritto e girato oggi.

John Nada (Rody Piper) è un operaio che a causa della grave crisi economica che si è abbattuta sugli Stati Uniti ha perso il lavoro ed è costretto a vagabondare da una città all’altra. Giunto in una nuova metropoli trova lavoro in un cantiere edile.

Finita la giornata John non ha un tetto dove andare ma Frank (Keith David), un collega, lo introduce nella sua sistemazione: una baraccopoli ai margini della città che ruota intorno a una piccola parrocchia.

La sera, come la maggior parte dei suoi vicini, John guarda la televisione ma strane interferenze disturbano i programmi. Nelle interferenze un uomo lancia strani allarmi che parlano dell’invasione da parte di extraterrestri che da anni hanno conquistato la Terra ma che, grazie alla passività degli umani e a sapienti mezzi di ipnosi sublimale, sembra non esserci mai stata.

Gli alieni – afferma l’uomo poco prima di essere interrotto dai programmi canonici patinati – hanno assunto ormai tutti i ruoli più importanti a livello economico e finanziario e, oltre a dominarci, stanno sperimentando sostanze chimiche e farmaci su di noi e sul nostro pianeta, proprio come se fossimo il “loro” Terzo Mondo.

John, come tutti quanti, ride incredulo, ma nota lo stesso uno strano movimento nella piccola chiesetta. Si intrufola nell’edificio che scopre essere il centro da dove partono quelle strane trasmissioni sovversive. Ma c’è di più, nello scantinato vengono fabbricati degli strani occhiali da sole e, quando la Polizia fa irruzione nella baraccopoli, per istinto ne ruba una scatola.

Allontanatosi dalla zona della retata, per curiosità, il giovane operaio si infila un paio d’occhiali e il mondo come lo conosceva finisce per sempre. Grazie a quelle strane e anonime lenti finalmente può vedere: tutta la città è piena di messaggi subliminali che istigano ad obbedire, a essere passivi e a guardare sempre la televisione.

Ogni insegna o cartello pubblicitario nasconde un messaggio, così come ogni rivista o libro, persino le banconote hanno il loro: “Io sono il tuo Dio”. Tolte le lenti tutto torna come fintamente normale. Ma la cosa più incredibile e che fra gli esseri umani vivono mimetizzati gli alieni che – guardandoli con gli occhiali – mostrano le loro terrificanti sembianze.

Dopo lo shock iniziale John decide di reagire e si unisce alla Resistenza. Lì viene indotto su come riuscire a sopravvivere – visto che gli alieni spacciano i membri della Resistenza come “Comunisti assetati di potere” – e soprattutto su come “risvegliare” il resto della popolazione.

I messaggi subliminali e la mimetizzazione degli alieni sono possibili grazie alle onde che vengono trasmesse da una speciale antenna nascosta fra quelle numerose del più grande network della città: basta eliminare quella e non ci sarà più bisogno di occhiali speciali per vedere la realtà. Ma la Polizia fa irruzione, qualcuno ha tradito…

Tratto dal racconto “Eight O’Clock in the Morning” di Ray Nelson, il film di Carpenter è uno dei gioielli del cinema indipendente americano con degli spettacolari spot pubblicitari girati ad hoc per il film.

Se dovesse tornare nelle nostre sale oggi bisognerebbe aggiungerci un sottotitolo: “Essi vivono – e non mollano le poltrone!”

Da vedere.

Gian Maria Volonté

Il 9 aprile del 1933 nasceva a Milano Gian Maria Volonté uno dei grandi attori, fra i più carismatici, che hanno segnato il nostro cinema, e non solo.

Diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma nel 1957, Volonté inizia la sua carriera in teatro riscuotendo un discreto successo, e passa – cosa poco usuale per quei tempi – alla televisione partecipando a sceneggiati famosi come “L’idiota” di Dostoevsky.

Nel 1960 approda al cinema, ma il grande successo arriva nel 1964 con “Per un pugno di dollari” del compianto quanto tutt’ora imitato Sergio Leone.

Volonté – che nei titoli di testa usa lo pseudonimo John Wels, così come Leone usa quello di Bob Robertson, visto che il pubblico nostrano credeva che a fare western fossero capaci solo gli americani… – veste i panni del bastardo, cattivo dei cattivi, Ramon. Un personaggio che, come il film che lo immortala, segna il cinema. Anche se torna a vestire i panni dell’infame in “Per qualche dollaro in più” (1965), la sua carriera è ormai decollata e nel 1966 Volonté partecipa a un altro grande film: “L’armata Brancaleone” di Mario Monicelli, nel ruolo di Teofilatto dei Leonzi.

Nello stesso anno torna allo Spaghetti Western con il classico “Quien Sabe?” di Damiano Damiani, nel ’67 lascia il cinema in costume per quello drammatico e di attualità con “A ciascuno il suo” di Elio Petri e nel ’68 è Piero Cavallero – della famigerata banda criminale – nello spettacolare “Banditi a Milano” di Carlo Lizzani. La collaborazione con Petri trova poi il suo apice nel 1970 con il capolavoro “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, dove interpreta magistralmente il “Dottore”, un commissario di Pubblica Sicurezza meridionale dall’animo irrisolto e perverso.

Il successo internazionale dei suoi film lo porta all’estero, soprattutto in Francia dove sempre nel 1970 gira “I senza nome”, un grande poliziesco con Alain Delon, Yves Montand e Buorvil diretto da Jean-Pierre Melville, dal quale nel 1995 Michael Mann prende spunto per il suo “Heat – La sfida”, con Robert De Niro e Al Pacino. Seguono poi film come “Sacco e Vanzetti” di Giuliano Montaldo  e “La classe operaia va in paradiso” sempre di Petri. Nel 1972 torna a lavorare – dopo “Uomini contro” del ’70 – con Francesco Rosi ne “Il caso Mattei”, fra i più bei docudramma realizzati sulla vita e soprattutto sulla morte di Enrico Mattei.

Dopo aver vestito i panni di Giordano Bruno nell’omonimo film di Montaldo del ’75 e quelli ufficiosi di Aldo Moro in “Todo Modo” di Petri nel ’76 – l’attore milanese tornerà ad indossarli ne “Il caso Moro” diretto da Giuseppe Ferrara che racconta il sequestro, la prigionia e l’assassinio del Presidente della DC – Volonté torna nel 1979 in televisione nello sceneggiato “Cristo si è fermato ad Eboli” diretto da Rosi: una delle pietre miliari del piccolo schermo.

Con Rosi, nel 1986, partecipa anche alla produzione internazionale “Cronaca di una morte annunciata” tratto dal romanzo di Gabriel Garcia Marquez.  L’anno dopo viene diretto da Luigi Comencini in “Un ragazzo di Calabria”. Nel 1990 gira, fra gli altri, due film italiani di rilievo: il primo è “Porte aperte” di Gianni Amelio che ripercorre il processo che portò nel Ventennio all’ultima condanna a morte eseguita nel nostro Paese.

Il secondo è “Tre colonne in cronaca” diretto da Carlo Vanzina (si, si, proprio Carlo Vanzina!), un avvincente thriller tutto made in Italy tratto da un romanzo di Corrado Augias, che però riscuote pochissimo successo. Nel 1991 Gian Maria Volonté torna a parlare di mafia ne “Una storia semplice” tratto da un romanzo breve di Leonardo Sciascia e diretto da Emidio Greco.

Il 6 dicembre 1994, durante le riprese de “Lo sguardo di Ulisse” di Theo Angelopoulos, Gian Maria Volonté viene colpito da un letale attacco cardiaco. In pochi anni poi, un attore di tale bravura e con una caratura internazionale paragonabile solo a quella di Marcello Mastroianni, viene vergognosamente dimenticato.

“Miseria e nobiltà” di Mario Mattoli

(Italia, 1954)

L’8 aprile del 1954 usciva nelle sale italiane “Miseria e nobiltà” diretto dal maestro Mario Mattoli.

A vestire i panni di Felice Sciosciammocca è l’inarrivabile principe Totò, che rende immortale la già irresistibile pièce di Eduardo Scarpetta.

Dagli spaghetti infilati nelle tasche, alla dettatura della lettera con “Stocio”, passando per “…certi check così!” a “Vincenzo m’è padre…” ogni scena è un equilibrio perfetto di gag e battute, molto spesso col doppio o il triplo senso; e alle fine ogni personaggio e ogni evento si incastra al millimetro con gli altri.

Fra i grandi meriti di questa pellicola, come di tutte quelle nate sulla scia dei festeggiamenti per il primo centenario della nascita di Eduardo Scarpetta, c’è quello di aver reso fruibile ai posteri l’arte della grande commedia scarpettiana interpretata da chi Scarpetta lo ha conosciuto e visto in teatro dal vivo.

Immortale.

“Uomini e topi” di John Steinbeck

(1938-2005 Bompiani)

La prima volta che ho letto questo breve romanzo di Steinbeck – fortunatamente nella traduzione di Cesare Pavese, così come qualche tempo dopo lessi quella di “Moby Dick” di Melville – mi ha fatto venire gli incubi.

Certamente ero troppo piccolo, e inconsciamente mi identificavo con i topi e i cuccioli che Lennie accarezza compulsivamente.  Poi, di recente, mi è tornata la voglia di leggerlo e mi ha commosso nuovamente, ma per ragioni completamente diverse.

Oltre che per lo splendido stile narrativo dell’inarrivabile Steinbeck, la cosa che mi ha colpito di più è che le tragedie di Lennie, George, Candy, Mrs. Curley e di tutti gli altri “topi” oggi sono drammaticamente attuali.

Un piccolo grande libro di un grandissimo autore.

“So dove vado” di Michael Powell

(UK, 1945)

Joan Webster è una ragazza decisa e volitiva: fin da piccola ha sempre saputo e ottenuto ciò che desiderava.

Anche per quanto riguarda l’amore, per Joan, le cose non cambiano: è decisa a sposare Sir Robert Bellinger, attempato industriale che possiede numerose industrie, e che per celebrare il matrimonio ha addirittura affittato Kiloran, un’isola nell’arcipelago delle Ebridi, dove ha organizzato una cerimonia esclusiva e lussuosissima.

Ma il viaggio è lungo da Londra e la ragazza, a causa del maltempo, è costretta a fermarsi a Mull, la piccola isola da cui partono i battelli per Kiloran. La burrasca sembra implacabile e Joan è costretta a chiedere ospitalità a Catriona Potts, proprietaria della più grande tenuta del posto, che condivide insieme ad altri ospiti.

Fra questi c’è il giovane Torquil MacNeil, ufficiale della RAF in licenza (nonché signore di Kiloran, anche se solo quasi nominalmente, visto che per mantenere ciò che rimane del suo casato è costretto ad affittarlo).

Neanche a farlo a posta, fra Joan e Torquil nasce del tenero ma, un’antica maledizione su tutti i Kiloran e la vita che lei aveva attentamente pianificato, sembrano tenerli lontani…

Fra le cose più interessanti di questa deliziosa pellicola, firmata dal maestro inglese Michael Powell nel 1945, è la rappresentazione indiretta del conflitto appena finito e vinto, che però non viene disegnato in maniera epica e trionfante ma viene descritto quasi in sordina, attraverso i disagi e le privazioni quotidiane che devono superare i protagonisti.

Davvero un bel film.

“La Costa d’Oro” di Nelson DeMille

(Mondadori, 1990)

John Whitman Sutter è un aristocratico WASP – che in lingua inglese è l’acronimo di White Anglo-Saxon Protestant (bianco anglosassone protestante) – a tutti gli effetti.

Rampollo di una storica famiglia di avvocati newyorchesi, John ha sposato lady Susan Stanhope e con lei vive nella Costa d’Oro, la zona di Long Island famosa per le grandi e splendide ville, simbolo imperituro dell’opulenza dell’upperclass americana affermatasi nel primo dopoguerra.

I Sutter vivono nella foresteria della lussuosa residenza degli Stanhope – che per evitare di pagare le tasse il vecchio Stanhope, padre di Susan, tiene chiusa – e passano le giornate cavalcando, navigando sul proprio yacht o andando a mangiare nell’esclusivissimo club della zona.

Ma questa splendida routine viene interrotta dall’arrivo del nuovo proprietario della tenuta a fianco: Frank Bellarosa detto il Vescovo, l’ultimo grande padrino della mafia newyorchese.

La vita di John Sutter e quella del Vescovo si intrecceranno fin nel profondo, con conseguenze a dir poco imprevedibili…

Un gran bel romanzo su due mondi così lontani e così vicini, che sentono la propria fine avvicinarsi ma che si comportano come se fossero immortali.

Da leggere tutto d’un fiato.

“Bersaglio di notte” di Arthur Penn

(USA, 1975)

Qui parliamo di un film che segna una rivoluzione copernicana nella storia del cinema, o meglio, nella storia della scrittura cinematografica.

“Bersaglio di notte”, infatti, è la prima pellicola in cui appare chiaramente il sub-plot.

Harry Moseby (un grande Gene Hackman, che per questa interpretazione è stato candidato all’Oscar), ex giocatore di football e investigatore privato per vocazione più che per mestiere, viene incaricato dalla ricca vedova Ward di ritrovare sua figlia Delly (una giovanissima Melanie Griffith al suo esordio ufficiale nel cinema) minorenne e scappata di casa per l’ennesima volta.

Moseby si trova così invischiato in un banale, in apparenza, caso di fuga di una minorenne irrequieta, che però lo porterà a scontrarsi con soldi e violenze ben oltre la sua immaginazione.

Durante le indagini però – ed è qui la grande novità – Moseby scopre casualmente che sua moglie Ellen lo tradisce. L’adulterio della moglie non ha nessuna attinenza con il caso che sta seguendo, ma non fa altro che mettere il nostro protagonista sotto pressione, e questa pressione – a sua volta – non fa altro che inchiodarci davanti allo schermo fino all’ultimo fotogramma.

La rivoluzione è di dimensioni talmente grandi che oggi l’uso del sub-plot si da per ovvio e scontato, ma allora non era così. A parte questa incredibile novità, “Bersaglio di notte” – e non mi voglio dilungare ancora sul genio dei distributori italiani nello scegliere i titoli visto che quello originale era “Night Moves”, che è tutta un’altra cosa… – diretto dal grande Arthur Penn e scritto da Alan Sharp è davvero un noir raffinato e di gran classe, con deliziosi richiami al grande cinema del passato.