“L’imperatore del nord” di Robert Aldrich

(USA, 1973)

Epica avventura ambientata nell’America della grande depressione.

Fra i numerosi vagabondi e derelitti che girano il Paese viaggiando abusivamente sui treni merci spicca Numero 1 (un grande Lee Marvin) che è l’unico riuscito a viaggiare su un treno vigilato da Shack (un cattivissimo e infame Ernest Borgnine) senza rimetterci la pelle.

La notizia fa scalpore e fra gli addetti alla ferrovia e fra gli stessi vagabondi scatta una gara di scommesse relativa ad un nuovo viaggio. Numero 1 accetta la sfida, ma il giovane e arrogante Cigaret (Keith Carradine), un vagabondo con manie di grandezza, si mette in mezzo…

Girato fra le splendide montagne del nord America, “L’imperatore del nord” ricostruisce alla perfezione il clima e la disperazione di quegli anni, dove la vita valeva meno di un piatto di minestra. Memorabili le scene girate sui treni in movimento.

Ottima pellicola di un grande regista incredibilmente dimenticato.

“A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder

(USA, 1959)

Dite quello che vi pare, ma qui parliamo semplicemente di un caposaldo della cinematografia planetaria.

Nonostante i numerosi decenni passati, e le mode che al momento non sembrano favorire le donne con le curve, Marilyn “Zucchero Kandisky” Monroe è una delle figure più sensuali di tutti i tempi.

Fra i primi casi di “travestimento” nel cinema hollywoodiano, soprattutto quello di un macho sex symbol come era allora Tony Curtis, il film di Billy Wilder (scritto assieme a I.A.L. Diamond) è una commedia perfetta, come poche altre.

E poi la scena finale col “Nessuno è perfetto!” e la faccia sconsolata di Jack Lemmon …inarrivabile.

“Ai confini della realtà” di Rod Serling

(2006, Fanucci Editore)

Amo questa raccolta anche se i 19 racconti contenuti sono un po’ anomali. Sono, infatti, la riduzione letteraria delle sceneggiature di altrettanti episodi di una delle serie televisive più affascinanti di tutti i tempi: “Ai confini della realtà” creata dal grande Rod Serling e andata in onda dal 1958 al 1962.

Purtroppo mancano alcuni fra gli episodi più belli, probabilmente per motivi legati a liti sui diritti d’autore, liti per le quali lo stesso Serling dovette cedere i diritti della sua serie pochi anni prima di morire.

Ma molti di quelli pubblicati rappresentano al meglio la grande innovazione che ha portato la serie ideata nel mondo della fantascienza, e non solo visto che l’opera di Serling è da sempre una delle più citate e imitate.

Da leggere assolutamente “Mostri in Maple Street”, inno contro ogni tipo di razzismo e pregiudizio.

“Nulla più di un omicidio” di Jim Thompson

(1959/1994, Mondadori)

Fra i grandi maestri del noir americano (con la N maiuscola) Jim Thompson occupa un posto di riguardo, al pari di Raymond Chandler e James M. Cain. Pubblicato la prima volta nel 1949, questo romanzo ha una trama poi non così complicata: ci sono due donne e un uomo e, come accade quasi sempre, il triangolo non può durare a lungo…

Ma lo sviluppo del racconto e lo stile crudo e inesorabile di Thompson lo rendono davvero unico. Scommettiamo che la prima volta che lo leggi, quando arrivi all’ultima pagina, fai un salto sulla sedia?

Di Thompson, autore anche di “Getaway” e “Rischiose abitudini”, Stephen King ha detto: “Troppo spesso imitato ma mai eguagliato” …parola del Re.

Per chi non conosce bene Jim Thompson (1906-1977) è giusto ricordare che è stato l’autore di oltre trenta romanzi – fra cui “Colpo di spugna“, “Un uomo da niente” e “L’assassino che è in me” – che fra gli anni Quaranta e Cinquanta hanno segnato l’immaginario collettivo americano.

Ha lavorato anche come sceneggiatore per Hollywood, sia per i vari adattamenti cinematografici dei suoi libri che come autore collaborando, per esempio, con Stanley Kubrick negli script di “Rapina a mano armata” e “Orizzonti di gloria”.

“Emilie Muller” di Yvon Marciano

(Francia, 1993)

Fino a poco tempo fa, nel nostro Paese, era quasi impossibile produrre e soprattutto vedere cortometraggi, un fenomeno del tutto paragonabile a quello dei racconti nell’ambito letterario.

Ma la rete, come molte altre cose, ha cambiato (e sta cambiando) anche questa imbarazzante verità. “Emilie Muller” è un bellissimo corto francese, pluripremiato, che possiede tutte le caratteristiche essenziali di un “film a breve durata”.

Uso questa definizione artificiosa perché è fondamentale considerare un cortometraggio un’opera completamente differente da un lungometraggio. Non è semplicemente la durata che li distingue, ma il linguaggio, la scrittura, la struttura dei personaggi, gli ambienti, ecc..

Sono due opere diverse, esattamente come un racconto è strutturalmente differente da un romanzo. Insomma, questo corto della Marciano è un vero cortometraggio a tutti gli effetti, splendidamente scritto e interpretato.

La storia: Emilie Muller (una bravissima Veronika Varga) si presenta a un’audizione per una parte in un film. L’assistente alla regia, per toglierla dall’impaccio, le chiede di svuotare la sua borsa, ma… e la bellezza del corto sta proprio qui, nel finale, che non svelerò neanche a pagamento!

Va visto e basta.

“La vita agra” di Carlo Lizzani

(Italia, 1963)

Lo so che il romanzo “La vita agra” di Luciano Bianciardi è molto bello, ma sono molto legato anche a questo film (per Carlo Lizzani ho un debole che parte da molto lontano…).

E poi, oltre la tormentata storia d’amore fra Luciano Bianchi (Ugo Tognazzi) e Anna (Giovanna Ralli), c’è la Milano del grande Boom (fotografata in tanti angoli grazie a un consistente uso degli esterni, davvero insolito per le commedie di quegli anni), uno splendido cameo di Enzo Jannacci, e soprattutto un’Italia che cambia, e che, a volerla dire proprio tutta, pone le basi di quella che diventerà la cultura “nazional-popolare” (lo so è un termine orrendo, ma l’ho messo apposta!) dei decenni successivi.

Luciano è l’addetto culturale della grande industria mineraria che possiede un ricco giacimento nei pressi del suo paese. Quando viene licenziato (insieme a molti colleghi minatori per ridurre i costi data la grave crisi…) decide di trasferirsi a Milano e far saltare in aria in grattacielo che ospita la sede centrale della società. Lì incontra Anna, militante di sinistra, con la quale inizia una relazione.

Per sbarcare il lunario, Luciano prima fa il traduttore per una casa editrice e poi, quasi per caso, comincia a creare slogan pubblicitari. Grazie al successo di questi verrà assunto, con un lauto stipendio, nell’azienda che qualche tempo prima lo aveva cacciato. La sua voglia così di vendetta si esaurisce, come la sua relazione con Anna, che si tronca definitivamente il giorno in cui sua moglie e suo figlio lo raggiungono per stabilirsi a Milano.

Una fotografia indimenticabile del nostro Paese che cambia, un documento forse unico, con una superba interpretazione del grande Tognazzi.

“Da dove sto chiamando” di Raymond Carver

(1999, Minimum Fax)

Raymond Carver per me è il racconto, mezzo passo indietro al genio assoluto che è Anton Čechov.

Questa raccolta, che contiene 37 titoli, rappresenta l’apoteosi dello scrivere racconti brevi. Meglio di mille altri romanzi contemporanei, Carver ci racconta la “commedia umana”, prendendo spunto da piccoli o grandi episodi nelle vite di persone, le più disparate fra loro.

Entriamo nell’intimo e nell’anima dei protagonisti come se fosse la cosa più naturale del mondo, e assistiamo a piccoli eventi, almeno in apparenza, che segnano però le loro esistenze. C’è davvero l’imbarazzo della scelta, ma il mio preferito è “L’incarico”, dove Carver ripercorre gli ultimi istanti di vita del suo maestro spirituale Anton Čechov attraverso gli occhi di un umile servitore.

Assolutamente da leggere, come tutti gli altri racconti.

E pensare che se fosse stato italiano, reo di avere usato il formato racconto, probabilmente nessuno lo avrebbe pubblicato…

“C’eravamo tanti amati” di Ettore Scola

(Italia, 1974)

Ci sono film che riescono a fotografare un’epoca, un periodo o un Paese. “C’eravamo tanto amati” di Scola immortala, come pochi altri, i primi trent’anni di vita della Repubblica Italiana.

E lo fa attraverso la vita, l’amicizia e l’amore di tre uomini e una donna: Gianni Perego (Vittorio Gassman), Nicola Palumbo (Stefano Satta Flores), Antonio (Nino Manfredi) e Luciana Zanon (Stefania Sandrelli).

E, come nei ricordi, la parte più lontana è in bianco e nero e quella più recente a colori (il cambio di dal b/n al colore, sul madonnaro che disegna in terra, rimane una delle scene visivamente più intense del nostro cinema).

C’è una scuola di pensiero che lo considera l’ultimo grande esempio di commedia all’italiana. Ma comunque, oltre ad essere uno splendido film, “C’eravamo tanti amati” è un importante documento della nostra storia contemporanea, sia per quello che racconta sia per come lo racconta.

Da ricordare anche la dedica che Scola fa al grande Vittorio De Sica, scomparso proprio l’anno di uscita del film.

Un capolavoro assoluto e immortale, da rivedere a intervalli regolari.

“La macchina del tempo” di Herbert George Wells

(1996, Mursia)

Qui parliamo di un romanzo pubblicato per la prima volta nel 1895, lo stesso anno in cui i fratelli Lumière brevettarono il loro cinematografo!

Il suo protagonista, che viene chiamato semplicemente “Il Viaggiatore nel Tempo” costruisce una macchina che gli permette di girovagare nei secoli. E proprio durante una cena con pochi intimi amici, egli racconta dei suoi pellegrinaggi.

Grazie al suo marchingegno è riuscito ad arrivare al 802.701 dopo Cristo. La lotta di classe, che nell’Inghilterra di fine Ottocento cominciava a prendere forma, in quel futuro così lontano si è ferocemente estremizzata…

Oltre a essere un grande romanzo di fantascienza è un bellissimo romanzo politico che fotografa, senza filtri, la società capitalistica di quegli anni.

C’è tanto di questo Wells nello splendido “Metropolis” diretto da Fritz Lang nel 1927.

Da leggere, assolutamente.

“Cast Away” di Robert Zemeckis

(USA, 2000)

Chuck Noland (Tom Hanks) è un uomo efficiente, soprattutto nel lavoro. E siccome lavora per un grande corriere espresso internazionale è costretto a viaggiare continuamente.

Anche a Natale lascia la sua Kelly (Helen Hunt) per seguire una spedizione intercontinentale.  E quando il suo aereo precipita, e lui finisce naufrago e solo su uno scoglio perso nell’oceano, ha quattro anni per ripensare alla sua vita e alle sue scelte, soprattutto quelle con cui ha gestito la relazione con Kelly.

E saranno proprio la voglia di rivedere il suo amore, e molta fortuna, a farlo tornare a casa.

Robinson Crusoe” a parte, è una delle migliori opere sulla solitudine, la “Message In A Bottle” del cinema. E poi c’è un memorabile Tom Hanks (autore dell’idea originale) che tiene la scena per più di un’ora, da solo, parlando col suo “Wilson”.