“Holly” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 2023)

2021, Holly Gibney è la titolare dell’agenzia di investigazioni private “Finders Keepers”, fondata dall’ex poliziotto Bill Hodges, ormai defunto ma vero faro illuminante nella vita della donna che, grazie a lui, è riuscita a crearsi una vita emotivamente indipendente da sua madre.

Sono state sempre molti le considerazioni e le valutazioni diametralmente opposte fra lei e Charlotte, sua madre, le ultime delle quali sulla natura ed il pericolo reale del Covid. Così Charlotte, a differenza di sua figlia, non si è voluta vaccinare né tanto meno ha mai voluto prendere tutte quelle precauzioni necessarie per evitare il contagio. E quando l’infame virus l’ha attaccata, a Charlotte non è rimasto che il tempo di morire da sola nella Rianimazione di un ospedale, pieno di altri gravi pazienti affetti dalla polmonite fulminate come lei.

Ma la morte di Charlotte non chiude il rapporto irrisolto con la figlia, che dovrà fare i conti con un lascito ingombrante e inatteso, in tutti i sensi. Proprio mentre Holly si prepara ad affrontare questa nuova e dolorosa parte della sua esistenza, alla porta della “Finders Keepers” si presenta Penelope Dahl, che tutti chiamano “Penny”, con la foto di sua figlia Bonnie Rea Dahl, una giovane e avvenente studentessa universitaria.

Bonnie è scomparsa il 1° luglio, poco più di tre settimane prima, e di lei è rimasta solo la sua bicicletta abbandonata in strada, con sul sellino un laconico biglietto di addio. Penny naturalmente si è rivolta alla Polizia ma, vista la mancanza di prove di una qualsivoglia violenza e soprattutto la situazione che sta creando il Covid, che colpisce anche il personale della Polizia cosa che rende sempre più complicato gestire l’ordine pubblico, le indagine su Bonnie sono ad un punto morto.

Holly accetta il caso e inizia a ripercorrere e studiare le ultime settimane conosciute di vita della ragazza, prima che svanisse nel nulla, a partire proprio dal rapporto conflittuale con la madre, molto simile sotti alcuni punti di vita a quello che lei aveva con la sua. Ma l’indagine costringerà Holly ad affrontare un terrificante e insolito predatore che, purtroppo, molto prima della scomparsa di Bonnie ha iniziato ad assecondare la sua “fame” di sangue…

Il Re ci regala un altro grande libro che ci tiene inchiodati alla pagine fino all’ultima riga, post fazione compresa. Narrandoci della caccia a un serial killer, King ci pennella in maniera netta e cruda la metafora di un aspetto duro e doloroso della nostra società contemporanea: lo scontro fra le generazioni più mature e quelle più giovani. Scontro che negli ultimi anni sta acquistando toni e dinamiche nuove, anche perché le prime hanno privilegi e diritti che le seconde, molto probabilmente, non potranno ottenere mai.

E se qualcuno avesse ancora dubbi sulla grandezza di Stephen King come scrittore puro, e non solo come un superbo autore dell’orrore, si legga i brani in cui, in poche semplici righe, ci descrive con sublime tristezza e profondo rispetto il vile morbo dell’Alzheimer. Per non parlare del concetto di scrittura su cui il Re ci dona delle splendide e indimenticabili riflessioni grazie al personaggio di Olivia Kingsbury, una famosissima poetessa quasi centenaria. 

In poche parole: un vero e proprio Maestro della parola scritta.

La Gibney appare per la prima volta nel romanzo “Mr Mercedes” – dove incontra Bill Hodges – del 2014 e nel racconto breve “Se scorre il sangue”, compreso nell’omonima raccolta di racconti del 2020.

“L’assassino che è in me” di Jim Thompson

(Fanucci, 2010)

Dopo aver pubblicato lo strepitoso “Nulla più di un omicidio” nel 1949, ed alzato l’asticella del romanzo noir americano che in quel momento sta vivendo il suo periodo d’oro, Jim Thompson viene contattato da alcuni redattori della Lion Books che vogliono che il suo romanzo successivo, il quarto, sia pubblicato dalla loro casa editrice.

Arnold Hano e Jim Bryans della Lion, al primo incontro con Thompson, gli consegnato cinque brevissime sinossi, dei semplici spunti sui quali costruire un romanzo. Dopo averli letti Thompson si sofferma su quello che “…riguardava un poliziotto di New York che ha una relazione con una prostituta e finisce per ucciderla” e dice ai due: “Prendo questo”.

Nell’arco di poche settimane sulla scrivania di Hano e Bryans arrivarono le cartelle con la prima versione del romanzo che avrebbe preso il titolo “L’assassino che è in me”. Thomson aveva usato solo il banale spunto della relazione fra un uomo di legge e una prostituta, per poi cambiare tutto, ambientando la vicenda nella sua “solita” Capital City, e soprattutto costruendo un protagonista e una storia terrificanti.

Il vice sceriffo Lou Ford è considerato da tutti i suoi concittadini un brav’uomo, tollerante e sempre pronto a dare una mano ha chi ne ha bisogno. Per questo lo sceriffo Bob Maples lo considera il suo pupillo. Ma Lou Ford nasconde un terribile segreto, che risale alla sua infanzia, e che suo padre, uno dei medici più stimati di Capital City, ha sempre tenuto nascosto a tutti.

Anche Lou ha fatto di tutto per nascondere e contenere la sua “malattia”. Ma quando Chester Conway, il fondatore e proprietario della Conway Construction, la più grande società edile della città e pilastro economico dell’intera contea, gli affida un lavoro “fuori orario”, la diga inesorabilmente crolla.

Perché Chester Conway ha chiesto al giovane e promettente vice sceriffo Ford di convincere l’avvenente e assai accessibile Joyce Lakeland a lasciare la città e soprattutto suo figlio Elmer Conway. La cosa deve avvenire nella maniera più discreta possibile visto il cognome del ragazzo. Ma quando Lou incontra di persona Joyce inizia per lui, e per chi gli sta vicino come la sua storica fidanzata Amy, una terrificante e inesorabile discesa agli inferi.

Travolti dal racconto diretto di Lou viviamo un’escalation di sangue e violenza per mano di una mente lucida e coerente, ma al tempo stesso folle, criminale e senza freni. Lo stesso Hano raccontò che lette le prime cartelle rimase letteralmente sconvolto e ogni volta che la sera a casa, nel buio della notte, le rileggeva, oltre a comprendere il genio assoluto di Thompson, i peli delle sua braccia spesso si rizzavano.

Anche Stanley Kubrik, una volta letto il libro uscito nel 1952, ne rimase talmente colpito da volere Thompson come cosceneggiatore per i suoi capolavori “Rapina a mano armata” e “Orizzonti di gloria”. E non è un caso, quindi, che fra i più grandi ammiratori di Thompson ci sia anche il maestro Stephen King – i cui mostri più terrificanti non sono quelli fantastici, ma quelli “ordinari” che appartengono al genere umano – che lo considera uno dei maggiori scrittori del Novecento, chiamandolo “Big” Jim Thompson.

Nella sua autobiografia “Bad Boy”, Thompson racconta l’episodio vero dal quale prese spunto per creare Lou Ford. L’evento si consumò, durante la sua giovinezza, in un luogo isolato fra lui ed un poliziotto, noto in tutta la cittadina per essere una brava persona assai tollerante con tutti. Per convincerlo delle proprie “ragioni”, il poliziotto con una calma glaciale, ed infilandosi i guanti di pelle, disse al giovane Thompson come lo avrebbe ucciso con le proprie mani senza che poi nessuno avrebbe sospettato di lui, vista la sua fama e il suo ruolo.

Sconvolto, il giovane Thompson si lasciò convincere e assecondò docilmente il poliziotto, rimanendo per tutta la vita con la certezza che quell’uomo lo avrebbe potuto davvero massacrare rimanendo impunito.

Un capolavoro ancora oggi agghiacciante e indimenticabile.

Nel 1975 Burt Kennedy dirige l’adattamento cinematografico con Stacy Keach nei panni di Lou Ford, che chi lo ha visto considera il peggior adattamento in assoluto di un’opera di Thompson. Nel 2010 Michael Winterbottom firma “The Killer Inside Me” con Casey Affleck nel ruolo di Ford, Jessica Alba in quello di Joyce e Kate Hudson in quello di Amy.

“Quasi un santo” di Anne Tyler

(TEA, 2005)

Ian Bedloe è un adolescente che vive al numero 8 di Waverly Street a Baltimora, agli inizi degli anni Sessanta. I suoi genitori, Bee e Doug, amano la casa piena di persone e amici, soprattutto quelli dei figli. Ian è il fratello minore di Claudia e Danny. La prima, alla soglia dei quaranta, è sposata con prole e in attesa del nuovo genito.

Danny, invece, è uno scapolo impenitente, che vive ancora a casa dei suoi. Lavora in un ufficio postale e ama passare le serate a parlare col fratello minore sulla soglia della sua stanza. Ian frequenta Cicely, una sua compagna di scuola.

Un giorno Danny torna a casa con una notizia sconvolgente: al lavoro ha incontrato Lucy una donna che a breve sposerà. Tutti i Bedloe ne sono entusiasti conoscendola, ma quando i novelli sposi presentano loro Agatha e Tommy, i due bambini nati nel primo matrimonio di Lucy, Bee non riesce a nascondere a marito e figli la sua perplessità.

Sette mesi dopo le notte nasce Daphne, e quando la piccola viene portata a casa Bedloe la prima volta, tutti non possono fare a meno di notare che non si tratta affatto di una “prematura”. Ian, intanto, è diventato il babysitter ufficiale di Agatha e Tommy e subito viene promosso anche a quello di Daphne.

Il giovane è attratto da Lucy, ma allo stesso tempo la trova misteriosa – della sua vista passata non esistono foto o documenti – e poco affidabile, visto che lui si deve occupare dei bambini quando lei esce con le amiche, che però nessuno conosce. Dopo aver preso il diploma Ian si è iscritto al college e quando il week end torna a casa, Danny gli chiede sempre di stare con i tre bambini, soprattutto per lasciare del tempo libero a Lucy.

Ian è convinto ormai che la cognata sia una fedifraga incallita e così declina ogni volta l’invito. Ma un sabato pomeriggio lo stesso Danny lo prega di occuparsi dei tre piccoli, perché lui ha una cena con gli amici e Lucy deve vedere la sua storica amica. Anche se Ian è stato invitato da Cecily a cena, dove consumeranno finalmente il loro primo rapporto sessuale, alla fine per assecondare il fratello accetta, visto poi che la cognata gli promette che rientrerà a casa abbondantemente prima dell’ora di cena.

Ma col passare del tempo Ian si rende conto che Lucy non manterrà la promessa e ad ogni telefonata di Cicely, che protesta perché la cena si sta rovinando, lui diventa sempre più furente. Così quando finalmente Lucy torna a casa quasi la ignora uscendo. Ma sulla porta incontra Danny, rientrato dalla sua cena che, nonostante sia un pò alticcio, si offre di accompagnarlo a casa con la sua auto.

Arrivati un Waverly Street, Ian sempre più indignato per la sua serata andata in fumo e per la patetica ingenuità del fratello pronuncia una frase secca e dura che segnerà per sempre la vita di Danny, quella di Lucy, di Agatha, Tommy, Daphne, Bee e Doug, ma soprattutto la sua, visto che passerà il resto della sua esistenza a tentare di vivere con l’incolmabile senso di colpa che quelle parole gli apriranno nell’anima…

La Tyler possiede la grande e rara capacità di raccontare in maniera sublime il passare del tempo all’interno delle mura della casa dove vivono le diverse generazioni di una famiglia. Come in molti altri suoi romanzi – come ad esempio “Ristorante Nostalgia” o “Una spola di filo blu” – anche in questo la grande casa di Waverly Street è il fulcro delle vicende dei Bedloe e di Ian che ne rappresenta l’anima tormentata e ferita.

L’autrice di “Lezioni di respiro” – vincitore del Premio Pulitzer nel 1989 – e “Le storie degli altri” – fra i miei romanzi preferiti in assoluto – ci ricorda che molto spesso sono le nuove generazioni ad arginare ed alleviare i terribili sensi di colpa che affliggono storicamente le loro famiglie, e che, soprattutto, col passare del tempo alla fine possiamo diventare più indulgenti con noi stessi.

Da leggere, come tutte le opere di Anne Tyler.

“A testa bassa” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 1994)

Apparso per la prima volta nella primavera del 1990 sul “The New Yorker” questo “A testa bassa” è uno degli scritti più atipici del Re Stephen King. E’ lui stesso, nella breve introduzione di tre righe, a dircelo.

Il Re ci comunica che quello che stiamo per leggere non è un suo “solito” racconto, ma un saggio. Così ci troviamo sul campo con la squadra di baseball della Bangor West che milita in una delle categorie minori della Little League, la federazione che cura i campionati giovanili americani.

I giocatori della Bangor West hanno tutti fra i dodici e i tredici anni, e rappresentano la scuola omonima che frequentano. Fra questi c’è un ragazzino che a soli tredici anni è già alto abbondantemente sopra il metro e ottanta, si chiama Owen King, ed il padre è uno scrittore di “…una qualche rilevanza”, come ci descrive l’autore stesso.

La Bangor West è arrivata alle finali statali solo molti anni prima, e così nella stagione 1988-1989 non parte certo fra le più favorite, visto poi che sulla carta non ha nessun giovanissimo talento in lista, come invece altre scuole del Maine. Ma il genitore/accompagnatore Stephen King, come d’altronde lo staff tecnico della squadra, intuisce che fra i ragazzi si potrebbe creare quell’alchimia che in campo sportivo può portare molto lontano…

Il Re ci racconta, in maniera travolgente, l’epilogo della stagione sportiva di una squadra giovanile i cui membri si devono dividere fra i compiti, le rispettive dinamiche familiari – alcuni saranno costretti a mancare le partire più importanti per seguire i propri cari in vacanza – e il diamante del campo.

Ma soprattutto King ci racconta l’anima dello sport, quello giocato su campi in pozzolana, rappezzati e al limite del regolamento, da squadre che indossano divise raffazzonate e mangiano panini preparati molte ore prima dai genitori.

E’ fra loro che si può respirare però la purezza dello sport nel senso più alto, dove non ci sono premi in denaro da vincere, ma al massimo un hamburger e delle patatine fritte offerte dal coach dopo la partita. Lo stesso scrittore ci ricorda come, in quegli anni, il mondo auro del baseball professionistico americano di prima grandezza, è stato travolto da scandali e corruzione, un mondo lussuoso dove l’opulenza spesso soffoca il vero spirito sportivo.

Nonostante gli anni, questo “A testa bassa” ancora ci fa riflettere sullo sport contemporaneo, ormai troppo spesso diventato una ricca multinazionale. Ma ogni tanto anche noi, abituati a ingaggi multimilionari di giocatori di calcio (per esempio), rimaniamo incantati dalla performance di un atleta o di una squadra che superano magistralmente tutti gli altri in una disciplina che troppi chiamano ancora “minore”.

Ma il termine “minore” è legato nel nostro Paese soprattutto al giro economico che ruota intorno alla disciplina. E così siamo abituati a considerare “minori” alcuni sport in cui noi italiani furoreggiamo e brilliamo da decenni, come la scherma ad esempio. Ma forse proprio lì, dove girano pochi soli o non ne girano affatto, possiamo ritrovare il vero e sano spirito sportivo che porta un essere umano, anche soli di tredici anni, a mettere piede su un campo o su una pedana e provare a spostare anche solo di un centimetro in avanti i propri limiti.

Questo “saggio” può fare da contraltare al bellissimo “Open – La mia storia” di André Agassi, in cui il campione statunitense ci parla con lucida freddezza degli enormi sacrifici che ha dovuto affrontare per diventare un grande campione.

Da leggere, come tutte le opere del Re.

“Il porto delle nebbie” di Georges Simenon

(Mondadori, 1958)

Pubblicato per la prima volta nel 1932 questo “Il porto delle nebbie” è il quindicesimo romanzo che il maestro Simenon dedica al suo commissario Maigret.

Fra le strade di Parigi viene ritrovato un uomo in evidente stato confusionale. Sulla testa ha una grande cicatrice ben curata, sulla quale i capelli sono stati accuratamente rasati. Ma a parte un cordiale sorriso, l’uomo non sa esprimersi.

Partono così i fonogrammi e i telegrammi in tutto il Paese per verificare se sia una delle persone scomparse denunciate. Ma solo quando la sua fotografia appare sui giornali la Polizia riesce a identificarlo. Si tratta del capitano della marina mercantile Yves Joris, scomparso qualche mese prima dalla piccola località di Ouistreham, che di fatto è il porto Caen, città capoluogo del dipartimento del Calvados in Normandia.

Maigret così lo riaccompagna a casa assieme a Julie, la sua governante e colei che lo ha riconosciuto. Ma proprio la notte del suo rientro Joris viene avvelenato. Per Maigret è una sfida personale nella tragedia: proprio sotto i suoi occhi è stato commesso un crimine ai danni di una persona indifesa e ormai incapace di nuocere a chiunque.

Sotto un cielo cupo, piovoso e tetro si consuma l’inchiesta del commissario che, anche questa volta, dovrà indagare nell’anima dei sospetti, nelle loro debolezze e nei loro più profondi segreti, per scoperchiare la vicenda e individuare il colpevole.

Ma le difficoltà sono molte, a partire dal fatto che lui è un “contadino” – come si auto definisce – che deve impicciarsi e fare domande fra l’insondabile gente di mare che lo osserva sempre con molta diffidenza.

Ouistreham si è sviluppata attorno alla chiusa del “Canal de Caen à la Mer”, da cui passano tutte le imbarcazioni e i mercantili che raggiungono o lasciano il capoluogo del Calvados. E così tutta, o quasi, l’azione del romanzo si consuma intorno ad essa, come nel bellissimo “La casa dei Krull” che Simenon scriverà pochi anni dopo.

“L’uomo che metteva in ordine il mondo” di Fredrik Backman

(Mondadori, 2014)

Lo svedese Fredrik Backman (classe 1981) è stato l’autore di un blog il cui protagonista era un sessantenne solitario e irascibile. Il blog ha riscosso un di enorme successo tanto da diventare un libro uscito in Svezia nel 2012 e, negli anni successivi, in molti altri paesi.

Ove ha 59 anni e vive da solo nella sua villetta a schiera in una città della Svezia. Molti lo considerano solo un vecchio rompiscatole, burbero e intollerante. Ma la sua vita non è stata sempre così.

Fino a circa sei mesi prima Ove era sposato con Sonja, il suo grande amore e l’unica persona, almeno fino al quel memento, che veramente aveva compreso tutto il suo essere e la sua essenza profonda.

Ma Sonja è stata stroncata da un tumore inesorabile, che ha lasciato Ove ancora più arrabbiato di prima. Quando poi nella società in cui lavora lo obbligano ad andare in pensione, Ove decide di farla finita e raggiungere così la sua tanto amata Sonja.

Ma a rovinare i piani funesti ci pensa Parvaneh, la sua nuova vicina. La donna, di origini iraniane, si è appena trasferita nella villetta accanto assieme a suo marito Patrick e alla sue due figlie e di tre e sette anni, e in grembo ha il terzo genito in arrivo.

L’uragano che si è trasferito nella casa adiacente alla sua costringe così Ove ad accettare di convivere anche con il disordine. L’ordine è stato sempre alla base della sua esistenza, è stata sempre la cosa a cui fare riferimento per non perdere la bussola e la linea dell’orizzonte.

Perché di tempeste Ove, fin da bambino, ne ha dovute affrontare tante. E proprio quando sembrava che l’esistenza non fosse altro che una lunga serie di terribili nubifragi, sulla sua strada è apparsa come in una favola Sonja. Per non parlare poi, molto tempo dopo, del gatto…

Delizioso romanzo che ci racconta, con una narrazione destrutturata, un uomo complicato che ha dovuto affrontare una vita davvero difficile. Ma Backman, come il suo implacabile protagonista, non da spazio a inutili sentimentalismi o a fronzoli emotivi, e con una godibilissima ironia ci disegna l’ottica di un uomo limpido e lineare – purtroppo per lui… – che stenta a integrarsi in una società che limpida e lineare non è.

E non azzardatevi a commuovervi, cazzarola …altrimenti Ove se la prenderebbe!

Da questo romanzo sono stati tratti i film “Mr. Ove” del 2015 diretto da Hannes Holm con Rolf Lassgård, e “Non così vicino” del 2023 di Marc Forster con Tom Hanks.

“Un uomo da niente” di Jim Thompson

(Einaudi, 2013)

“Big Jim” Thompson (1906-1977) – come lo chiama giustamente Stephen King – è stato uno dei maggiori e migliori autori di romanzi noir americani nell’epoca d’oro che va dagli anni Quaranta ai Cinquanta del secolo scorso.

La sua produzione supera i trenta romanzi – fra cui gli strepitosi “Nulla più di un omicidio“, “Colpo di spugna” e “L’assassino che è in me“, solo per citarne alcuni – e la sua penna ha lavorato anche per il cinema, e non solo per gli adattamenti dei suoi libri, firmando le sceneggiature di “Rapina a mano armata” e “Orizzonti di gloria” entrambi diretti da Stanley Kubrick.

La disperazione e l’odore di catastrofe imminente che si respirano nei suoi scritti, Thompson li aveva assaporati veramente nella sua vita reale. Figlio di uno sceriffo caduto in disgrazia, il giovane Thomson, refrattario all’istituzione canonica, iniziò a fare ogni tipo di mestiere. A vent’anni, in pieno Proibizionismo, lavorando come cameriere in un albergo, ne era diventato lo spacciatore ufficiale di alcol e stupefacenti.

A cambiare la sua esistenza furono le edizioni tascabili che a partire dagli anni Quaranta rivoluzionarono la storia dell’editoria planetaria. Nonostante lo sdegno e la rabbia di noti critici e alcuni scrittori, che vedevano l’avvento dell’edizioni tascabile come la rovina definitiva della letteratura mondiale – esattamente come qualche decennio dopo molti critici e autori fecero col coltello fra i denti per opporsi all’avvento del “male assoluto” che reputavano essere gli ebook, forse anche per paura di perdere la loro posizione privilegiata – le edizioni tascabili a basso costo, riempiendo le edicole di libri, espansero la voglia e la possibilità di leggere in maniera clamorosa.

Fra la facilità di fruizione – le edicole erano ovunque, in stazione, alla fermata dell’autobus, ecc… – e soprattutto il loro basso costo, in poco tempo i loro assidui lettori diventarono milioni. Così le case editrici iniziarono a cercare sempre più autori. Lo sconosciuto James Myers Thompson ebbe la possibilità finalmente di trovare i suoi numerosi lettori. Analogo percorso lo fecero altri ottimi autori che divennero dei veri e propri punti di riferimento nei decenni successivi, come ad esempio Philip K. Dick.

Ma come Dick, Jim Thompson venne apprezzato poco in vita, soprattutto dalla critica che di fatto, dato anche il suo complicato e indomito carattere, lo snobbò. Minato dall’alcol e caduto nel dimenticatoio, Thompson poco prima di morire disse profeticamente alla moglie che ci sarebbero voluto altri dieci anni prima che il mondo lo avrebbe rivalutato. E, infatti, a partire dalla metà degli anni Ottanta i suoi libri vennero sempre più apprezzati e letti dalle nuove generazioni, grazie anche a nuovi adattamenti cinematografici e ad autori di successo, su tutti il grande Stephen King, che ne consigliavano pubblicamente la lettura.

“Un uomo da niente” viene pubblicato per la prima volta nel 1954 col titolo originale “The Nothing Man”. Clifton Brown, detto Brownie, è un giornalista del piccolo quotidiano “Courier” di Pacific City, in Oregon, il cui formale e perbenista direttore è Austin Lovelace . Il suo capo redattore, invece, è Dave Randall che è stato anche il suo colonnello mentre entrambi combattevano al fronte durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il rapporto fra Brownie e Randall, nonostante la gerarchia, è complesso e irrisolto. Perché Clifton non perde occasione per punzecchiare e deridere pubblicamente il suo capo. Il motivo nasce proprio al fronte, dove Brownie, calpestando una mina ha perso la sua virilità. Anche se l’evento tragico non era direttamente imputabile a Randall, questo si sente comunque in colpa e sopporta le frecciate del suo ex commilitone che lo chiama sempre con poco rispetto: “colonnello”.

Ma la menomazione subita in guerra non influisce solo sul suo lavoro, ma ha devastato e devasta anche la sua vita privata. Clifton è stato sempre un bell’uomo molto affascinante, ma a sua moglie Ellen, tornato dal fronte, non è riuscito a raccontare la verità. E così l’ha lasciata senza troppe spiegazioni.

La donna, per mantenersi e forse anche per vendicarsi, ha iniziato a prostituirsi. Lo scandalo pesa come un macigno sulla carriera di Clifton che cerca in ogni modo di evitarla. Fortunatamente per lui Ellen è spesso fuori città, ma proprio mentre l’uomo sta iniziando a frequentare la ricca vedova Deborah Chasen, sua moglie torna.

Furioso, stanco e annebbiato dall’alcol, Brownie la va a trovare e la colpisce in testa con una bottiglia di whisky, per poi dare fuoco alla camera d’albergo. Convinto di averla uccisa, Brownie riesce ad evitare un accusa di omicidio da parte di Lem Stukey, il detective capo di Pacific City, che tentava di accusarlo.

Mentre in città è scattata la caccia all’assassinio, Brownie inizia a sentire sempre più opprimente la relazione con Deborah Chasen, visto poi che il momento in cui dovrà confessarle la verità sui suoi genitali si avvicina inesorabilmente. E allora non riesce a trovare altra soluzione che ucciderla…

Come gli altri grandi romanzi di Thompson, anche questo è una discesa agli inferi di un essere umano perso nella follia, nell’alcol ma soprattutto nella sua scarsa e manchevole autostima. I punti in comune fra Clifton Brown e il suo autore non sono pochi, a partire dall’alcolismo e della grande capacità di entrambi di essere degli ottimi scrittori. E forse la castrazione subita in guerra da Borwnie è per Thompson il mancato, unanime e pubblico riconoscimento del suo genio in vita.

“Big” Jim è sempre lui!

“Le inseparabili” di Simone De Beauvoir

(Ponte alle Grazie, 2020)

Tornano disponibili alcune opere di Simone De Beauvoir (1908-1986) che è stata una delle figure più poliedriche e rilevanti della cultura planetaria del Novecento. I suoi scritti, dalla narrativa alla saggistica, che toccano la filosofia, l’impegno sociale e l’emancipazione delle donne hanno influenzato ed influenzano ancora la nostra società.

Fra le massime esponenti della corrente dell’esistenzialismo, la De Beauvoir ci ha lasciato una serie di testi ancora oggi preziosissimi. Se nel nostro Paese molti dei suoi libri – come ad esempio lo splendido “Tutti gli uomini sono mortali” – sono purtroppo fuori catalogo e reperibili solo nel mondo dell’usato, discorso diverso vale per questo suo breve romanzo terminato nel 1954.

Perché questo, molto più di altri, è profondamente autobiografico e la stessa autrice, proprio per tale motivo, non intendeva pubblicarlo. La De Beauvoir ci racconta la storia dell’amicizia e il profondo amore fra due ragazze nate in Francia nei primi anni del Novecento: Sylvie e Andrée. La prima è l’alter ego della stessa autrice, mentre la seconda è quello di “Zazà” Elisabeth Lacoin, ritratte insieme, non a caso, nella foto della copertina del libro. Entrambe figlie di famiglie borghesi e benestanti, si conoscono sui banchi di scuola mentre l’Europa, e il mondo interno, sta facendo i conti con le macerie del primo conflitto mondiale.

Nonostante sia uso e costume darsi sempre del “lei”, anche in tenera età, Sylvie rimane subito affascinata dal carattere unico e forte di Andrée che, reduce da un brutto incidente che le ha causato una gravissima ustione ad una gamba, torna a scuola dopo alcuni anni passati a casa.

Le due, insieme, affronteranno la vita ma soprattutto le profonde ingerenze delle rispettive famiglie che spesso si annidano dietro la fede e la religiosità più opprimente. Ma se Sylvie, per il suo carattere e la sua volontà, riuscirà a sopravvivere al perbenismo e al formalismo più estremo, Andrée, proprio per la sua limpidezza del suo essere, verrà travolta da una famiglia e una società profondamente maschilista e patriarcale, che avrà il suo alfiere più implacabile proprio nella madre.

Splendido e breve romanzo di formazione scritto con uno stile indimenticabile e travolgente, come tutte le opere della De Beauvoir. L’autrice, nei decenni passati e soprattutto nel secondo dopoguerra, veniva definita come una “femminista”, un’etichetta che serviva allora per banalizzare un ruolo e punto di vista che gettava luce su uno degli elementi più crudeli e nefasti della società: il patriarcato.

Purtroppo, a distanza di quasi cento anni dagli eventi narrati, questo romanzo resta ancora molto attuale, perché i tentacoli del patriarcato passano fin troppo spesso anche per i sorrisi di madri apparentemente comprensive e remissive.

Davvero struggente.

“La casa dei Krull” di Georges Simenon

(Adelphi, 2017)

Il maestro Georges Simenon ci racconta la storia di una casa ai margini di una piccola cittadina fluviale francese.

Cornélius Krull, il patriarca della famiglia, arrivò molti decenni prima dalla Germania stabilendosi in una baracca, ad intrecciare le sue ceste di vimini, fuori dal piccolo centro abitato che ruotava intorno alla chiusa del fiume, sul quale quotidianamente passavano le chiatte. Col passare del tempo il piccolo paese è diventato una piccola cittadina e che ha inglobato la casa dei Krull.

Ma anche se Cornélius, sua moglie e i suoi tre figli sono ufficialmente naturalizzati francesi, molti li considerano dei “crucchi” e così preferiscono camminare anche qualche chilometro piuttosto che servirsi da loro. L’ombra della guerra (la prima) è ancora forte e il razzismo porta tutti, o quasi, a considerare i Krull gente strana e inaffidabile, e così il loro spaccio è frequentato soprattutto da marinai di passaggio e dai meno abbienti della zona.

La cosa, naturalmente, ha influito e influisce pesantemente nella vita di tutti. Ma se Cornélius e la moglie Maria sembrano essercisi rassegnati, i loro tre figli Anna, Joseph e l’adolescente Elisabeth sembrano invece non riuscirci. Soprattutto Joseph Krull, a cui manca poco per laurearsi in medicina, che da sempre vive male la sua patologica timidezza nei confronti dell’altro sesso.

Un giorno alla porta della casa si presenta Hans, il figlio di Wilhelm Krull fratello di Cornelius, in cerca di ospitalità. A differenza dei suoi parenti, Hans non nasconde affatto le sue origine tedesche e non cerca di integrarsi senza attirare troppa attenzione. Ha un carattere scostante e arrogante, e ama godersi la vita e sedurre tutte le donne che gli capitano a portata di mano.

Le cose precipitano quando nel fiume, a pochi metri dalla casa dei Krull, viene rinvenuto il corpo di una ragazzina che è stata strangolata e poi violentata prima di essere gettata nelle acque. Tutti, a partire dagli inquirenti, non possono fare a meno di pensare che l’efferato delitto abbia le sue radici in quella “dannata” casa…

Pubblicato per la prima volta nel 1938, e in Italia nel 1965, questo breve ma coinvolgente romanzo ci parla del becero e subdolo razzismo dietro al quale si nascondo sempre ignoranza, grettezza e soprattutto tornaconti personali. E’ per questo che Hans: “Intuiva forse che adesso toccava a lui essere la Straniero, la causa di tutti i mali del mondo?”.

Simenon ci racconta così, in maniera superba e travolgente, l’accendersi della miccia di una ottusa e razzista rivolta popolare contro una famiglia “straniera” e mai accettata, che diventa il comodo e facile capro espiatorio dei mali di una cittadina e di una società. Dinamiche che ricordano molto quelle descritte dal grande John Wainwright (autore non a caso amato dallo stesso Simenon) nel suo “Anatomia di una rivolta” nel 1982.

Drammaticamente attuale.

“Le venti giornate di Torino – Inchiesta di fine secolo” di Giorgio De Maria

(Frassinelli, 2017)

Giorgio De Maria (1924-2009) è stato un autore e musicista fra i più eclettici del panorama italiano del Novecento. Insieme a Italo Calvino, Sergio Liberovici, Emilio Jona e Michele Straniero fondò nel 1958 il gruppo “Cantacronache” che, unendo la cultura letteraria a quella musicale, lavorò per il recupero della canzone politica italiana a partire da quella della Resistenza fino ad arrivare a quella giacobina. Con Liberovici, Jona e Straniero pubblicò nel 1964 “Le canzoni della cattiva coscienza”.

De Maria fu anche critico teatrale per “L’Unità” dalla fine degli anni Cinquanta a metà degli anni Sessanta. Artista poliedrico, firmò nel 1963 la commedia in tre atti “Apocalisse su misura” per il Teatro Stabile di Torino e collaborò come autore con la RAI ad alcuni programmi dedicati al teatro.

Scrisse anche quattro romanzi: “I trasgressionisti” (1968), “I dorsi dei bufali” (1973), “La morte segreta di Josif Giugasvili” (1976) e “Le venti giornate di Torino – Inchiesta di fine secolo” che venne pubblicato dalla piccola casa editrice Il Formichiere nel 1977.

Il romanzo passò praticamente inosservato e nessuno critico o “esperto” del settore ne parlò. De Maria si dedicò ad altro e non pubblicò più niente fino alla sua morte. Il suo carattere deciso e indipendente, probabilmente, non aiutò il romanzo ad avere l’appoggio dei salotti culturali che tanto influivano sulla riuscita commerciale di un testo. E così nel nostro Paese furono in pochi a leggerlo.

Nel 2017, otto anni dopo la sua morte, il giornalista australiano Ramon Glazov, folgorato dal suo stile e dall’originale storia narrata, lo traduce in inglese e “Le venti giornate di Torino – Inchiesta di fine secolo” viene pubblicato dalla Norton, casa editrice americana che fino a quel momento aveva pubblicato negli Stati Uniti solo un altro autore italiano: Primo Levi.

Il libro diventa un caso letterario visto che viene apprezzato non poco negli Stati Uniti dove molti paragonano il De Maria di questo libro, giustamente, ad Egdar Allan Poe e a Howard Phillips Lovecraft. Il successo porta la Norton a tradurre il libro anche in altre lingue. Da noi, visto l’eco negli Stati Uniti, Frassinelli dopo molti decenni lo ripubblica.

Ci troviamo così in una Torino misteriosa e onirica, che sembra appena ripresasi da una grande inquietante e sanguinosa tragedia, che però nessuno sembra ricorda bene. Solo il protagonista, l’io narrante, vuole tentare di ricostruirla scrivendo un saggio dedicato proprio alle “Venti giornate di Torino”, consumatesi esattamente dieci anni prima.

Parte così dalla sorella di Giovanni Berghesio, la prima vittima accertata il cui corpo venne trovato in mezzo alla strada, nel centro storico della città sabauda, spappolato visto che era stato sbattuto contro un basamento da una forza immane. La sorella del Borghesio, con una certa riluttanza, accetta di parlare del fratello, della sua grave insonnia che in quel periodo lo aveva colpito assieme ad altri suoi concittadini che vagavano nella notte senza tregua.

Anche se alla morte del Berghesio erano presenti altre persone, come poi accadde per quasi tutte le altre vittime, nessuna ricordava con precisione la dinamica né l’assassino, e così gli inquirenti, nonostante i lunghi e insistenti interrogatori brancolavano nel buio. Il protagonista decide di incontrare un altro testimone diretto degli eventi, l’avvocato Andrea Segre, che gli sottolinea come l’inizio dei tragici eventi delle venti giornate concise con l’apertura della “famigerata” Biblioteca.

La Biblioteca, che poi il Comune fece chiudere, era il luogo in cui tutti i cittadini potevano portare i loro scritti privati e personali, che a richiesta gli altri potevano leggere. Non si trattava di narrativa o saggistica, ma di veri e propri diari personali in cui le persone dichiaravano i propri più reconditi e intimi segreti, spesso inconfessabili. E forse la morbosità dei lettori nell’entrare direttamente nell’anima di chi scriveva, intuisce il protagonista, era uno dei motori delle venti giornate…

De Maria firma un romanzo surreale, fantastico – in tutti i sensi – e, soprattutto, terrificante. Una discesa agli inferi, inesorabile e senza esclusione di colpi. Davvero un’opera originale e indimenticabile, fra le più significative del nostro Novecento letterario.

E poi l’autore, nel 1977, proprio come fece il grande Verne su numerose invenzioni scientifiche, anticipa nella sua opera quello che, alcuni decenni dopo, dominerà la cultura planetaria: il social. Perché l’essenza della Biblioteca di questo libro è proprio il più spinto e spietato voyeurismo emotivo e comportamentale, associato ad un irrefrenabile esibizionismo emotivo, entrambe tanto presenti in molti che usano e frequentano oggi i social.

A distanza di quasi cinquant’anni rimane inspiegabile l’oblio di questo libro. Se alla fine ci si palesa la verità sulle venti giornate di Torino, rimane ancora un insondabile mistero come possa essere passato inosservato dagli “esperti” e dai famigerati letterati professionisti, per tanti decenni, un romanzo così.

Ma, fortunatamente, anche fuori dai confini italici ci sono persone che leggono e amano i nostri libri, indipendentemente dalla casa editrice dalla quale sono pubblicati, visto che …li leggono.